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La Turchia a un bivio

di - lunedì 26 dicembre 2016 ore 10:46

La Turchia è attraversata da un'ondata di violenza inaudita, una catena di attentati che minano la coesione sociale, e dimostrano una pericolosa fragilità dello stato. La fredda mano del giovane folle attentatore che colpisce alle spalle il plenipotenziario di Putin è l'ennesima dimostrazione della fragilità di Ankara. L'enigmatico scenario ha una spiegazione nell'ascesa di Recep Tayyip Erdogan. L'uomo forte di Istanbul salito al potere nel 2003 ha saputo allargare e radicare il proprio consenso in particolare tra la classe media del paese, proponendosi agli occhi e alle tasche della gente come garante incondizionato e soprattutto incontestabile. 

E così il liberismo islamizzante di Erdogan ha corretto il percorso democratico e laicizzante che avrebbe dovuto portare la Sublime Porta dentro i confini di una nuova Europa. Deviando dagli obiettivi di una grande unione per il progresso e la civiltà: il ponte strategico tra Occidente e Oriente rischia di non essere inaugurato, almeno a breve. Il governo turco ha mostrato al mondo il vero volto di un sultano vendicativo e con lo sguardo al passato: deciso a consolidare il potere personale e allo stesso tempo impegnato a sopprimere il dissenso interno in modo drastico. Mentre il Bosforo sprofondava nel caos tipicamente mediorientale, il terrorismo insanguinava i luoghi pubblici e i militari occupavano i ponti, Erdogan adottava la repressione autoritaria ed estendeva le sue ingerenze sulla regione. Il fallito golpe del 15 luglio, per quanto ingiustificabile, ha avuto l'effetto di rendere la preda a sua volta uno spietato cacciatore. 

La vittoria schiacciante del leader turco, dovuta sostanzialmente alla discesa in campo del popolo, ha avuto una portata maggiore di un successo elettorale. Gli argini della democrazia e dei diritti umani sono stati spazzati via non con voto plebiscitario ma per acclamazione della piazza. Il giro di vite, il governo che ordina di imprigionare decine di migliaia di presunti golpisti e persone vicine a colui che sarebbe secondo Erdogan il vero ispiratore delle manovre di destabilizzazione, la guida spirituale Fethullah Gulen. La drammatica epurazione tra le fila dell'esercito e della burocrazia, il sistematico arresto di giornalisti non allineati, la sospensione di accademici e insegnanti, sono state le risposte di Erdogan ai propri nemici. E la fine di vecchie amicizie. 

Una cosa che ancora oggi sfugge è il fatto che, alla vigilia del colpo di stato, nessuno abbia potuto prevedere che la Turchia sarebbe scivolata nel dramma del Medioriente, assorbita dal vortice di violenza. Il senso comune era che in fondo Ankara è sempre stato un fraterno alleato politico e militare dell'Occidente, un muro all'espansione russa, un affidabile referente nelle tribolate questioni arabe. In pochi sospettavano che Erdogan volesse realmente costruire uno stato islamico sunnita e che tentasse di portare in vita il sogno del ritorno dell'Impero Ottomano, la convinzione più diffusa era che avrebbe preservato l'ordine sociale, con scelte conservatrici ma mantenendo in piedi la struttura dello stato turco costruito da Kemal Ataturk. Così non è stato. 

Ed oggi la Turchia è un concentrato pronto ad implodere. Con un parlamento senza opposizione e gli effetti della crisi siriana oramai dentro casa. Con la morsa del terrorismo, vuoi per mano dei fondamentalisti dell'Isis o per quella della minoranza curda del PKK e delle sue cellule più o meno affiliate. Le recenti stragi di Istanbul e in Cappadocia rafforzano ulteriormente l'impressione che la Turchia isolandosi è diventata sempre più debole, insicura e instabile, e che le geopolitiche di Erdogan, spinte sino all'alleanza con l'ex nemico Putin, non sono in grado di riportare tranquillità, sviluppo e pace. Il sultano dovrà presto decidere se dispiegare le armate dei giannizzeri ai quattro venti del Vicino Oriente oppure avere una numerosa rappresentanza al parlamento europeo. Le due strade oggi sono incompatibili. E le minacce all'Europa non sono più ammesse. 

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