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giovedì 28 marzo 2024

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​"Il piccolo naviglio" il secondo romanzo di Antonio Tabucchi

di - martedì 18 aprile 2023 ore 08:00

L’autore

Considerando che parlerò a lungo del romanzo, mi limito a fornire solo una breve nota di presentazione, dando per scontato che in molti conoscano la narrativa di Tabucchi.

Antonio Tabucchi (Vecchiano, 1943 – Lisbona, 2012) è indubbiamente una delle voci più rappresentative della letteratura europea. Autore di romanzi, racconti, saggi, testi teatrali, curatore dell’edizione italiana dell’opera di Fernando Pessoa, i suoi libri sono stati tradotti in oltre trenta lingue. Molti suoi testi hanno ispirato noti registi teatrali e cinematografici. Ha ricevuto il premio Campiello e il premio Viareggio – Rèpaci, oltreché, all’estero, il Prix Médicis Etranger in Francia e il premio Hidalgo in Spagna. Ha insegnato all’Università di Siena.

Ha scritto inoltre Il gioco del rovescio (1981), Notturno indiano (1984), L’Angelo nero (1991), Requiem (1992), Sostiene Pereira (1994).

Di Antonio Tabucchi, avevo già analizzato tempo fa, sulla mia pagina fb, il romanzo “Piazza d’Italia”.

C’era una volta un piccolo naviglio…

Nel romanzo Il piccolo naviglio, pubblicato da Tabucchi nel 1978, Sesto, discendente da una famiglia di uomini che si sono sempre battuti per la libertà e la giustizia e che hanno sentito l’esigenza di conoscere se stessi, decide un bel giorno di abbandonare il silenzio nel quale si è chiuso per anni e di entrare in contatto con il mondo esterno.

Prima di parlare brevemente del romanzo, vorrei però premettere alcune considerazioni preliminari anche alla luce di quanto scritto prima.

Piazza d’Italia e Il piccolo naviglio presentano alcuni aspetti comuni: la storia d’Italia viene osservata dalla parte degli umili, di coloro che sono esclusi dalla Storia ufficiale, e viene ripercorsa attraverso le vicende di tre generazioni. Nel romanzo del 1975 la storia d’Italia viene osservata da un piccolo paese toscano, Borgo, e viene ripercorsa attraverso le vicende della famiglia di Plinio. Sulla piazza di Borgo passano gli anni come passano le statue: quella del Granduca, quella di Garibaldi che offre l’Italia al Re, quella di Garibaldi che offre l’Italia al Duce e quella di Garibaldi che offre l’Italia alla Democrazia. E nel piccolo paese il tempo scorre come scorrono le generazioni: Plinio e i suoi discendenti intrecciano le loro storie con la Storia, partecipano alle imprese garibaldine, alle guerre in Africa e alla Grande Guerra, attraversano gli anni del regime mussoliniano, assistono alle violenze nazifasciste, prendono parte alla Resistenza e contribuiscono alla nascita della Repubblica.

Un arco di tempo, questo, che viene prolungato con Il piccolo naviglio, che si apre con le vicende di Leonida o Leonido che fugge dal Granducato di Toscana ma si protrae fino alla ricostruzione del secondo dopoguerra, agli anni del “boom” economico e ai primi anni Settanta.

C’è la Storia, in questi due primi romanzi, e ci sono le storie. Ma è anche presente una costante componente fiabesca. Fin dagli esordi la pagina letteraria accoglie la storia ma diventa anche il regno dell’immaginazione, si confronta con il reale ma lascia spazio anche all’irreale, segue il filone degli eventi accertati e documentati ma imbocca anche i sentieri della fantasia. Può accadere, nel Piccolo naviglio, che il colore rosso dei capelli dei protagonisti sia fatto discendere dal fiocco rosso che ha accompagnato l’infanzia di Leonida, che due sorelle gemelle e identiche partoriscano insieme un unico figlio, che Leonida muoia nell’inutile tentativo di volare sfidando la legge di gravità, che Sesto, nato in una notte di pioggia, diventi «un uomo acquatico» e scompaia nell’immensità del mare. Oppure può accadere, in Piazza d’Italia, «fiaba popolare» fin dal suo sottotitolo, che un’estate sia così lunga da far diventare adulti i protagonisti bambini, che ad Esperia si accendano dieci fiammelle celesti sulle dieci dita dei piedi, che la campana del paese si sciolga per solidarietà durante le violenze nazifasciste e che le finestre escano dai cardini e prendano il volo per non vedere gli orrori della storia.

La storia, nei romanzi di Tabucchi, è attraversata dalla lotta tra libertà e oppressione, tra giustizia e ingiustizia. E l’attenzione dello scrittore si concentra non a caso sui periodi in cui la libertà viene negata da regimi (palesemente o sottilmente) dittatoriali. Il ventennio fascista è attraversato dai protagonisti dei romanzi Il piccolo naviglio e Piazza d’Italia; il regime di Salazar fa da sfondo a Sostiene Pereira, storia di una presa di coscienza, della maturazione ideologica di un uomo di cultura, del passaggio da una concezione della letteratura come evasione a una idea della letteratura come impegno e come denuncia, e a La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997), romanzo sulla violenza della Guardia National e sulla giustizia; la guerra di Spagna è presente, con la contrapposizione tra esercito franchista e truppe democratiche, in racconti e in frammenti dispersi in varie raccolte. . I personaggi di Tabucchi stanno sempre dalla parte della libertà e della giustizia, da Plinio e dai due Garibaldo di Piazza d’Italia fino a Leonida e ai due Sesto in Il piccolo naviglio.

Dentro la storia

Nell’incipit di questo romanzo, Capitano Sesto ricorda in un flash back la fuga di Leonida, suo padre, inseguito dai gendarmi, mentre attraversa a nuoto il torrente che separa il Granducato di Toscana dal Regno delle due Sardegne; solo alla fine compare il nome di Argia , sua madre. Il secondo capitolo si apre con la narrazione dell’infanzia di Argia e l’apparizione di Leonida che la mette in cinta: “La minuscola Argia riuscì a tenere nascosto il suo stato per quarantasei giorni, finchè vomiti e nausee non la fecero decidere. Il dottor Poldi allargò le braccia, poi si lisciò il mento e borbottò: “Tutto è relativo, tutto è relativo” [1]. Alla fine l’ingravidatore misterioso uscì dal fienile, dichiarò di chiamarsi Leonida e di fare il tipografo. Il terzo capitolo si apre con un lungo flash back in cui Leonida parla dei suoi figli; i primi quattro morirono, poi nacquero Quinto e Sesto. Sesto nasce di pelo rosso e Leonida allora si ricorda di suo padre, un brigante, che era morto al Maschio di Volterra e di sua madre che gli aveva preparato 120 decotti per 120 giorni. Il padre di Leonida aveva rilegato quelle ricette con un fiocco rosso e forse quel “rosso” avrebbe potuto spiegare il colore dei capelli di Sesto. Successivamente a Leonida ed Argia, nascono le gemelle Anna e Maria: Leonida, che lavora in una cava di marmo, un giorno torna a casa, portando con sé una gru ferita; la cura e da quel giorno prende il sopravvento la sua follia perché si mette a coltivare un sogno: quello di abbattere la forza di gravità e di iniziare a volare, imitando la gru. Morirà infatti quando, bardato da uccello, si getta giù dalla montagna e muore; ma questa è solo la sua morte allegorica, la morte reale avrà come causa una paralisi progressiva che si era procurata dopo una reale caduta dal monte nel tentativo di imparare a volare.

Sesto va in seminario, dopo che Argia ha convinto il parroco, Don Giacomino Settimelli, a scrivere al Vescovo; passa due anni in seminario, interessandosi più all’astronomia che alla vocazione, poi torna in paese per il fidanzamento del fratello Quinto con Addolorata: “ Addolorata era la traduzione fisica del nome che per infelicità o bizzarria sua madre le aveva imposto”[2]

Nel paese c’è una tremenda siccità. Non piove da mesi. Sesto, con una bacchetta da rabdomante, chiama a raccolta i paesani e ordina loro di scavare in un punto: lì c’è l’acqua. La mattina dopo Sesto scompare. Sul tavolo di casa ha lasciato un biglietto con su scritto: “Sono fatto per l’acqua”.

Giunti a questo punto, Capitano Sesto, che è il narratore, ricostruisce la sua storia, leggendo le cronache di uno storiografo locale “ Annali della città di *** e dei paesi del chierico Paolo Fonzio”. In questi annali si riporta la morte di Quinto nelle cave di marmo; capitano Sesto cerca anche notizie delle sue sorelle e scopre che, una volta che ebbero avuto il mestruo, da brutte , erano diventate bellissime; ed è a questo punto che entra in scena Corrado Zanardelli, figlio del nuovo padrone delle cave, che, vedendole un giorno affacciate alla finestra, si innamora credendo in realtà di averne vista una sola e pensando che l’altra fosse un riflesso. Alla fine si fidanza con tutte e due, senza mai capire con chi, finché decide di metterne in cinta solo una, ma, finito il tempo, anche l’altra rimarrà in cinta: “ Cosa fai, ora, Corradino Zanardelli, ? Possibile che ti lasci invadere dalla disperazione ? (…) chi è il vero pazzo della storia, Corradino Zanardelli: le tue due amanti ingravidate una per via genitale e l’altra per autoconvinzione, o tu, che mai le sapesti distinguere (…)?”[3]

Il bel Corradino se ne andrà, quasi impazzito, sposerà una giovane vedova fiorentina e alla fine si sparerà un colpo di pistola in testa. Comunque nascerà un bambino dalla doppia madre, e le due madri decidono di chiamarlo Marianna, anche se è un maschio.

Sesto – Marianna (figlio di Maria e Anna che hanno scelto come mestiere di prostituirsi all’ Hotel Majestic) è cresciuto ed è diventato amico di Anselmo Menichetti, legittimato Zanardelli (figlio di Corrado e della vedova fiorentina) .Ha frequentato il Convitto e si è diplomato maestro; prima di partire per la prima guerra mondiale, decide di recarsi al Majestic a trovare le due mamme che lo iniziano al sesso con una giovane prostituta, loro amica. Poi Sesto partirà per il fronte.

Spostando poi un po’ indietro l’orologio della storia, com’è consuetudine nei romanzi di Tabucchi, si passa dal 1914 al 1911 – 12, gli anni di Giolitti e della conquista della Libia e qui la scena si apre su Anselmo Menichetti, che nel frattempo è diventato fascista, ingegnere e padrone della cava del patrigno Corrado. Durante una riunione di anarchici, alcuni decidono di sparare ad Anselmo mentre questi tiene un comizio, ma Sesto si oppone; qualcuno comunque ad Anselmo gli spara ugualmente, ferendolo ad un braccio. Nel frattempo padre Curci, di fede socialista, non diventa Papa e al suo posto viene eletto Achille Ratti che prenderà il nome di Pio XI.

La parte seconda del libro si apre con Anselmo Zanardelli che vuole vendere la cava e cambiare attività; intanto si sposa con Amelia Degli Angeli, vedova (suo marito Sesto è morto o forse scomparso) con un figlio di nome Sesto che Anselmo ribattezza Alcide. Anselmo continua la sua parabola politica e decide che sua moglie Amelia impari il francese; assume quindi uno studente di Firenze che, oltre ad insegnarle la grammatica, metterà anche in cinta Amelia che morirà poco dopo di anemia perniciosa. Il figlio nato da questa relazione adulterina si chiamerà Alcide e quindi Sesto – Marianna potrà riappropriarsi del suo nome originario. Sesto viene mandato a studiare dagli Scolopi, ma ha deciso di chiudersi in un totale silenzio; d’estate torna a casa Zanardelli dove suo fratello Alcide e la cameriera Amelia gli fanno compagnia; il patrigno lo porta ogni domenica a vedere il suo impero di calcestruzzo. In una delle ennesime visite al cantiere, Anselmo Zanardelli viene travolto da una betoniera carica di cemento a presa rapida e diventa una statua. Sesto degli Angeli lascia la famiglia.

A Firenze, Sesto lavora come correttore di bozze presso la “Premiata Tipografia Favilla” e frequenta Socrate, un suo collega filosofo, che capisce i suoi silenzi e con cui condivide letture e riflessioni sull’esistenza; conosce anche Adalberto Rossi che, con lo pseudonimo di Rox, scrive tele poemi (poesie come telegrammi). E’ grazie a queste due frequentazioni che Sesto prende coscienza di sé: “E capì anche all’improvviso, con un senso di panico e di meraviglia come si addice a un poeta senza poesia, di essere il punto di un tempo in progressione, risultato e inizio, addendo e somma; ed ebbe voglia di allungare la mano verso il fiume delle cose per pescarsi, per afferrare il piccolo naviglio detto Sesto Degli Angeli: tenersi sul palmo della mano, guardarsi, decifrarsi, dare un senso al suo scorrere, determinare la rotta da seguire nel grande fiume dello scorrimento. Con la foga di chi scopre una cosa insospettata pensò di diventare capitano di se stesso (…).”[4]

Un giorno, dal tetto di un cantiere dove campeggiava la scritta Zanardelli, cade una “I” dell’insegna e Sesto capisce che è venuto il momento di affrontare la realtà e, senza sapere che esistesse, si mette a correre verso l’Ivana.

“L’Ivana detta Rosa (come Rosa Luxemburg) portava un maglione girocollo e una catenina con la falce e il martello. – La vuoi una copia della diffusione straordinaria ? – gli chiese l’Ivana detta Rosa senza che Sesto sapesse che si chiamava così.”[5]

Scoppia così l’amore tra Sesto e Ivana con giornate scandite dalla diffusione de “L’Unità” e pranzi a base di tortille che Ivana prepara inventandosi nomi esotici (in realtà sono solo frittate). Sesto si politicizza e i due vanno spesso a trovare Socrate. Poi Sesto va a Roma per partecipare ai funerali di Togliatti (siamo nel 1964); da lì scrive una lettera a Ivana che, però, non potrà mai leggerla perché è morta.

Socrate racconterà poi a Sesto che Ivana, durante una manifestazione, si era trovata in mezzo al ponte sull’Arno (forse Ponte Vecchio) , circondata dai celerini e ad un certo punto qualcuno l’ha vista cadere giù (si era buttata o ce l’avevano buttata?)

Sesto Degli Angeli in seguito verrà processato perché, ad una successiva manifestazione, ha distribuito volantini nei quali accusava la Celere di avere assassinato Ivana. Durante il processo si distrae, osservando una famiglia di tarli: “ annunciato dal tremolio di una polvere cipriosa un primo tarlo mise il capo fuori da uno degli innumerevoli forellini che costellavano la ringhiera di legno (…) Poi si sporse sul buco da cui era uscito, dondolò il capo come se facesse un richiamo e si guardò intorno per decidere la direzione di marcia”[6]

Ma alla fine esplode, offendendo in modo molto pittoresco il Giudice e la Corte: “Io, qui presente Sesto Degli Angeli, vi accuso formalmente di aver assassinato Rosa Luxemburg; dichiaro pubblicamente, in questo sudicio tribunale, di essere stato offeso e avvilito da una legge subdola e asinina che non riconosco, ma che disprezzo e derido. Dichiaro inoltre di essere stato giudicato da un gorilla e da un equino travestiti da giudici, o da due giudici travestiti rispettivamente da gorilla e da equino, il che è un doppio travestimento essendo costoro in realtà due vermi. “[7]

Uscito dal manicomio giudiziario dove è stato relegato per un certo periodo dopo il processo, Sesto decide finalmente di sciogliere i nodi della sua vela e di cominciare a scrivere la sua storia che inizia proprio dal momento in cui l’abbiamo raccontata .

La critica

Luciana Stegagno Picchio (1920 – 2008), saggista, filologa iberista, grande conoscitrice della cultura portoghese, così recensisce “Il Piccolo Naviglio” di Tabucchi che fu, tra l’altro, suo allievo:

Nel 1978, un giovane Antonio Tabucchi, che tre anni prima, nel 1975, aveva fatto irruzione nella narrativa italiana con i colori e gli umori del suo libro-stampa popolare Piazza d’Italia, tornava a varare, nello stagno di questa nostra narrativa, un secondo romanzo, significativamente intitolato il Piccolo Naviglio. Presentato in bandella, con sorridente metafora, come una barchettina di carta, di quelle con cui giocano i bambini, una barchettina qui costruita con le stesse pagine del romanzo suo contenitore, quel piccolo naviglio veniva poi presentato dal suo autore tanto quale sua immagine riduttiva quanto come palestra di apprendimento ed esercitazione stilistica. Per l’ancora ristretto, ma già selezionato pubblico degli aficionados di Tabucchi, esso era invece la continuazione poetica di una Piazza d’Italia che non solo aveva rivelato un autore, ma aveva per così dire aperto un nuovo, spregiudicato e inventivo filone di memorialismo storico nella nostra letteratura novecentesca. Poi, quel piccolo naviglio che fin dalla prima immersione aveva dimostrato di saper molto bene navigare, aveva preso il largo trasformandosi in un piroscafo transcontinentale il cui arrivo è segnalato oggi in tutti i porti del mondo. E questo perché sempre, in ciascuno dei suoi viaggi iniziatici, in ciascuno dei suoi viaggi-racconti, esso trasporta storie inedite che fanno sognare, che fanno pensare, che inquietano e fanno sorridere. Storie inventate e storie rubate. Storie leggere come farfalle e storie che pesano come macigni, storie di piccoli equivoci senza importanza e storie di sogni di sogni, di deliri-rêveries. Storie-epistolografiche, lettere a personaggi del presente e del passato, della storia e della finzione, della realtà e del mito, tutti oniricamente fusi in un incosciente-immaginario che è dell’autore per divenire subito il nostro, di noi tutti. Storie come ricordi inventati. Storie, soprattutto, che conducono il lettore fin sull’orlo di un precipizio e poi lo lasciano lì incerto, senza spiegazione o soluzione. Perché la vita non dà spiegazioni e tantomeno soluzioni. La vita, e quella sua protesi che si chiama letteratura, dà al massimo allucinazioni, illusioni e, forse, assoluzioni.[8]

La Stegagno Picchio inizia la sua indagine sul libro partendo da un livello stilistico che coinvolge i personaggi, i luoghi – scenario dell’ azione e lo strumento del narrare, cioè la lingua.

I termini temporali, come già abbiamo visto, vanno dal 1842 al 1968 e i luoghi sono quelli della campagna toscana; la finzione narrativa della realtà e la ricostruzione che ne farà il narratore Capitano Sesto (che ricorda un po’ il Capitano Nemo) subito dopo la fine degli avvenimenti si annodano e ricongiungono nel finale del libro, in una circolarità vita – finzione che sarà, d’ora innanzi il segno di tutte le opere di Tabucchi.

I due oggetti del narrare, realtà e finzione, sembrano da una parte recuperare la circolarità propria della letteratura orale e dall’altra introdurre fin da ora quel concetto di doppio che sarà una delle costanti della narrativa di Tabucchi.

Nota sempre la Stegagno Picchio che l’esordio ai due livelli, fattuale e memoriale, si dà in un anno imprecisato dell’ ‘800 in cui Leonida, di professione tipografo, si mette in salvo dagli sbirri granducali, traversando di notte a nuoto un torrente gelido che separa il Granducato di Toscana da quello che ancora si chiama Regno delle due Sardegne.

Evidenti sono le analogie con Piazza d’Italia . I luoghi sono gli stessi , “sono gli stessi i suoni, le voci di quella balenante e realistica lingua toscana che dà toni di fiaba popolare, narrata dai suoi protagonisti, alla saga familiare. E sono della stessa pasta i personaggi, tutti apotropaicamente di pelo rosso, come la camicia garibaldina di Plinio, capostipite omologo del futuro Leonida. Solo che ne Il Piccolo Naviglio , il colore rosso che in Piazza d’Italia appariva ancora realisticamente legato a un emblema di storia come la camicia garibaldina, sarà sostituito dal rosso di un fiocco che tiene insieme le pagine di un libro, di un metaforico quaderno di ricette.”[9]

In questi due primi romanzi si registra il primo salto verso quella letteratura – finzione che sarà poi come “istituzionalizzata” ne Il gioco del rovescio del 1981.

In un’intervista a Carlos Gumbert, Tabucchi ammette che, dopo i primi due romanzi fortemente autobiografici per i luoghi (la Toscana) e le storie ( i forti conflitti sociali) , decide finalmente di introdursi nella scrittura come personaggio. E quello fu il momento del cambio, dove il Portogallo si sostituisce per la prima volta alla Toscana. Non è infatti un caso che il Portogallo sia per Tabucchi il prolungamento esistenziale e culturale della sua formazione, insomma una sorta di “doppio”, tanto per restare in tema.

Nota sempre la Stegagno Picchio: “ Come se fino a quel momento il narratore avesse scavato nella propria storia individuale per recuperare lo sguardo innocente di un’infanzia mitica e cantastoriale, per ricomporre, svelandoli, i valori univoci di una sua formazione sociale e politica e improvvisamente si fosse accorto che non è possibile vedere la realtà, nessuna realtà da un solo, univoco punto di vista, che tutto è doppio e che nel mondo come in un quadro dell’ Arcimboldo, ogni cosa, ogni immagine, ha il suo rovescio con sempre un suo diverso e contraddittorio significato.”[10]

Quello che mi sembra evidente è il fatto che Tabucchi, nei suoi due primi romanzi, aveva già esplicitamente anticipato il tema del “doppio” e del “rovescio”. La saga dei Garibaldo e dei Sesto sono lì a dimostrarlo. Gli stilemi dei suoi primi due romanzi “rusticani” ritorneranno sempre anche nei romanzi successivi..

Osserva infatti la Stegagno Picchio: “ Si scoprirà quanto l’Ivana – Rosa Luxemburg, con le sue ingenue certezze politiche ed esistenziali, sia maestra congenita di un problematico Pereira, approdato anche lui alla certezza del NO , per volere di un narratore marcato nei suoi primi anni proprio dal fascino di Ivana. E forse si darà nuovo significato all’epiteto di postmoderno attribuito a un narratore come Antonio Tabucchi, la cui insonnia narrativa riserva sicuramente ancora molte sorprese” [11]

La storia dei Sesto è la storia di tutti coloro che nella storia italiana degli ultimi centocinquanta anni si sono ribellati perché il loro concetto di “giustizia” non collimava con il potere.

Ed è in questa luce, così come era successo per i vari Garibaldo di “Piazza d’Italia”, che la metastoria d’Italia diventa la storia di un paese in cui, nell’alternarsi dei regimi politici – monarchia, dittatura, repubblica – non si è mai instaurato un dialogo democratico tra le classi dominanti e le voci dissidenti. La colpa dei cosiddetti “sovversivi”, ovvero del padre di Leonida e dei vari Sesto, è quella di non assoggettarsi al potere, un potere che li vuole disciplinare e ridurre al silenzio, che vuole rubare ai colpevoli di dissenso “il tempo e la storia”, per confinarli a un limbo di non – tempo attraverso il non – essere o l’isolamento.

E questo è il forte messaggio che ci lancia Tabucchi con questi suoi primi romanzi.


[1] A. Tabucchi, Il piccolo naviglio, Arnoldo Mondadori Editore, 1978, pg. 15

[2] Ibidem, pg. 42

[3] Ibidem, pg. 58

[4] Ibidem, pg. 148

[5] Ibidem, pg. 155

[6] Ibidem, pg 179

[7] Ibidem, pg. 182 - 183

[8] Luciana Stegagno Picchio, in “Dedica ad Antonio Tabucchi” (a cura di Claudio Cattaruzza), Ed. Associazione Provinciale per la Prosa, Pordenone 2001

[9] Ibidem

[10] ibidem

[11] Ibidem


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