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Pace e dialogo, il messaggio di Francesco in Asia

di - lunedì 27 novembre 2017 ore 13:23

Il viaggio di papa Francesco in Asia è iniziato. Il Santo Padre visiterà quello che ha sempre definito “il continente del futuro”. Rivolgendo un invito al mondo a non aver paura della saggezza della quale si fa da sempre portatore l'Oriente. L'interesse apostolico di Bergoglio per quella regione è confermato dai numeri: 3 viaggi e 5 Paesi visitati ad oggi. L’apertura all’Asia, e in particolare al suo colosso, la Cina, da parte del Papa sono noti sin dai primi giorni del suo insediamento al soglio pontificio. In questi anni la diplomazia vaticana ha lavorato assiduamente nella costruzione di buoni rapporti con la controparte cinese, i telegrammi al presidente Xi Jinping e i periodici colloqui con gli emissari di Pechino ne sono la riprova. 

Tuttavia la Cina, che pure presterà attenzione alle parole che papa Francesco pronuncerà in questo viaggio, non è il paese direttamente sotto i riflettori in questa occasione, bensì lo saranno Bangladesh e Myanmar (l’ex Birmania). Due Paesi uniti dai confini geografici e dalla spinosa questione dei Rohingya, la minoranza musulmana vittima di una vera e propria pulizia etnica da parte dell'esercito birmano – come è stata definita dalle Nazioni Unite – costretta a scappare negli stati bagnati dal golfo del Bengala e dal mare delle Andamane. Trovando rifugio in Bangladesh, Thailandia, Malaysia e Indonesia. Un’etnia, quella dei Rohingya, dilaniata da persecuzioni: 650 mila persone fuggite dopo che i loro villaggi contadini sono stati dati alle fiamme, e restie – oggi che tra i due Paesi è stata trovata una parziale intesa per il rientro dei rifugiati in Myanmar – a tornare perché non hanno più un tetto dove vivere. Famiglie impaurite per il timore di nuove ondate di violenza da parte delle altre etnie e dei militari. 

Un contesto delicato, quindi, nel quale si inserisce il viaggio di un Papa che negli ultimi tempi si è più volte appellato ai protagonisti della vicenda auspicando una soluzione e che darà un forte segnale incontrando, il primo dicembre, una rappresentanza dei Rohingya a Dacca, la popolosissima capitale del Bangladesh. Nonostante il fumoso accordo per il rimpatrio siglato in prima persona, tra gli altri, dalla consigliera di stato birmana Aung San Suu Kyi (Premio Nobel per la Pace nel 1991), anche solo iniziare il processo di rientro dei rifugiati – previsto nel giro di due o tre mesi – sarà difficile, e non solo per le resistenze dei perseguitati. Molti di loro infatti non hanno più documenti per dimostrare di provenire dall’Arakan o dal Rakhine (le due regioni di residenza dei Rohingya), o non possono affidarsi a parenti in grado di testimoniare per loro. In Myanmar sperano ancora di riuscire a tenerli lontani e frenare il ritorno in massa, tra accuse di fiancheggiare il terrorismo e di essere immigrati bangladesi. 

Una situazione confusa, resa ancor più complicata da una legge del 1982 che esclude la loro minoranza da quelle riconosciute in Birmania, che il Papa spera di poter sbrogliare nonostante uno storico sentimento anticristiano assunto in passato da svariate nazioni orientali e mai del tutto sopito. Il recente abbandono del buddismo come religione di Stato (a seguito del processo di transizione democratica del Paese certificata, anche nel maggio scorso, dall’udienza in Vaticano di San Suu Kyi) per molti ha giocato un ruolo chiave nelle politiche di discriminazione e persecuzioni nei confronti dei Rohingya (mettendo in seria difficoltà l’operato e la credibilità internazionale del Premio Nobel birmano). 

Tensioni interne e pulsioni razziali sotto l'egida del Dragone. La Cina è il primo partner della Birmania e lo sponsor per includere l'antico regno delle pagode nella nuova via della seta, la rotta commerciale verso l'Europa. Inoltre, Pechino è il fedele alleato della casta militare che continua a controllare il potere. Con il messaggio di pace e dialogo, papa Francesco intraprende l'ennesima sfida diplomatica, un altro tassello dell'agenda geopolitica bergogliana.

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