Di cosa parliamo quando parliamo d’amore
di - giovedì 02 maggio 2024 ore 07:30
“ Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” è il titolo di un libro di Raymond Carver che rapino come titolo per il mio nuovo blog che parla, appunto, di amore, anzi di amori diversi, protagonisti di due libri; il primo “Le bambine non fanno pipì in piedi” (ETS, 2016) di Domiziana Tommasini affronta, con largo anticipo sui tempi, la problematica sui generi, introducendo il tema, sconosciuto ai più, dell’ “intersessualità”. Il secondo “L’amore e altre forme d’odio” (Einaudi, 2006) di Luca Ricci narra, in ventuno racconti, i piccoli e grandi incidenti di cui sono fatte le nostre giornate, ma anche la fantasia, l’erotismo, le complicità tragicomiche che si consumano all’interno di quell’insolito gruppo, denominato “famiglia”
Domiziana Tommasini
Le bambine non fanno pipì in piedi
O sei maschio o sei femmina, altrimenti non sei.
E il non essere spaventa. La mancanza di definizione di ciò che non comprendiamo ci fa preferire i mali che sopportiamo ad altri che non conosciamo, come direbbe Amleto.
Questi e altri bivi esistenziali affronta “Le bambine non fanno pipì in piedi“, il primo romanzo di Domiziana Tommasini: Il rifiuto dell’ignoto è l’azione di difesa primordiale dell’uomo e ci impone di seguire la via più breve; maschio o femmina, essere o non essere, è proprio questo il problema.
Invece, ero il primo a detestare le definizioni; semplicemente, negli anni avevo dovuto battere le biblioteche della città in cerca della chiave per riuscire a decifrare la mia esistenza, sebbene con risultati non troppo incoraggianti. Dopo che decine di volumi erano passati tra le mie mani, infatti, possedevo numerose definizioni tese a categorizzare i cosiddetti disturbi della differenziazione sessuale e dell’identità di genere, tra i quali però la mia condizione era forse indicata come la più aberrante poiché insidia il quesito primario di fronte ad una nuova nascita: è maschio o femmina?
Le Bambine non fanno pipì in piedi (Collana “Incipit”) è un romanzo di formazione, nel quale assistiamo all’evoluzione e alla crescita del protagonista, Lorenzo, che approcciandosi alla sua sessualità deve fare i conti con la propria natura e trovare una spiegazione a ciò che è davvero. Ma la ricerca non si limita ad una collocazione di genere, ovvero se è più giusto che un bambino nato con “ sindrome di insensibilità parziale agli androgeni (pAIS)” stia tra le fila delle femmine o dei maschi. E’ piuttosto un percorso di ricerca interiore segnato da un coraggioso atto di onestà verso se stessi, un cammino tanto particolare quanto universale; la sua natura di romanzo di formazione, infatti, consente al lettore di identificarsi col protagonista, condividendone il travaglio emotivo e fisico.
In un’epoca in cui parlare di transgender e omosessualità è diventato quasi una moda, una filosofia di vita, una strategia per rivendicare la propria diversità rispetto alla massa della gente che si considera comune, su argomenti come questi e ancor più su un termine così poco diffuso come “intersessualità” regnano invece confusione e mancanza di effettiva informazione.
Il romanzo di Domiziana Tommasini non si offre ai propri lettori come una fonte di risposte, ma come uno strumento per porsi i giusti interrogativi e cominciare a riflettere e a comprendere ciò che non si conosce: l’intersessualità non è una patologia, non è un fattore discriminante, è solamente una possibilità di esistenza.
E’ questo il grido di Lorenzo, che rivendica la necessità di essere se stesso e di liberarsi delle catene che lo legano alle convenzioni sociali e all’ansia di trovare un posto nel mondo, perché non è questo ciò di cui ha bisogno, non è una collocazione, anche se durante il romanzo tentennerà ripetutamente sull’orlo del genere sessuale a cui ricondursi, il suo grido è una richiesta d’amore, comune a tutti gli esseri umani. E’ proprio il disperato bisogno d’amore del protagonista che funge da aggancio fra la storia e il lettore; senza nemmeno accorgersene, il lettore si ritrova ad affiancare Lorenzo nella sua ricerca di identità, e a condividerne i dolori e le conquiste.
C’è un passaggio nel libro in cui il dramma di Lorenzo assume caratteristiche grottesche che finiscono per sfociare nel tragicomico. Lorenzo ha instaurato una relazione con Giulia, una giovane parrucchiera a cui ha confidato tutto sulla sua condizione, convinto che lei abbia capito. Poi viene il momento in cui dai baci si passa a qualcosa di più intenso ed ecco cosa succede:
Giulia sentiva la natura, agiva di conseguenza alla natura; il senza natura ero io, ecco la Verità, e la sua insistenza a cercare il mio sesso stava facendosi insostenibile.
Con uno sbotto d’insofferenza le bloccai i polsi.
“Non ce l’ho, Cristo Santo, non ce l’ho” esclamai, ma lei non si scompose, anzi sembrò persino riuscire a divertirsi di fronte ad un intersessuato così terribilmente maldestro.
Drizzò appena la schiena e sorridendo indicò dietro alle mie spalle
“Non preoccuparti, testone! Fortuna che ne ho sempre io qualcuno di riserva.”
Eccola, dunque l’altra verità.
Realizzai l’incredibile fraintendimento quando, dopo che ebbe rufolato alcuni istanti nel cruscotto, le vidi estrarre un sottile pacchettino dal marchio inconfondibile: allora Giulia non aveva capito niente, ancora ignorava tutto di me! Come fossero andate le cose alla mia nascita, cos’era stato fatto al mio corpo, in che modo soffocante funzionasse la mia vita …
Ma sentiamo cosa ci dice l’autrice; e, a questo proposito, riporto l’intervista che Maria Cristina Impagnatiello fece a Domiziana per Tuttomondonews:
Domiziana Tommasini, rispondendo ad alcune domande, ci accompagna nell’immersione nella storia e nella scoperta del suo lavoro.
D.Ma che cosa si intende, precisamente, con il termine “intersessualità”? Non lo abbiamo ancora definito.
R. E non lo faremo! Lascio ai lettori il compito di documentarsi consultando le fonti preposte a illustrare un sì complesso argomento, in parte citate nella mia nota al testo, quali strumenti indispensabili a garantire il giusto approccio e la comprensione di che cosa davvero si nasconda dietro a questo termine, considerato esso stesso improprio secondo il parere di alcune associazioni, inadeguato a descrivere l’intera varietà di condizioni cliniche e di esperienze individuali riconducibili alla questione intersessuale. E’ un termine, comunque, troppo spesso ignorato o frainteso, confuso con ogni altro termine che presenti il suffisso …- ità: Intersessual-ità non è infatti sinonimo di Transessual - ità, che a sua volta non significa Omosessua l - ità… Occorre prendere le distanze da definizioni e categorie, che spesso confondono la realtà invece di facilitarne la lettura, creando nell’immaginario collettivo false convinzioni, come se l’esistenza di un essere umano fosse il risultato della più elementare addizione: talvolta dobbiamo invece disimparare che due più due faccia quattro.
D.Intersessualità, identità, non sono però gli unici argomenti che danno vita al romanzo. Sono infatti approfonditi temi altrettanto importanti come il ruolo della madre nella vita di un figlio, l’amore, la morte. Come si legano all’interno della storia?
R. Questo romanzo nasce dal desiderio di scrivere una storia il cui principale soggetto fosse l’esistenza, declinata secondo alcune tra le sue innumerevoli, possibili varianti: dal momento che l’intersessualità esiste, da qui sono partita, delineando senza dubbio il quadro peggiore nella vita del protagonista, per farne in realtà risaltare il bello, il buono. Un po’ come celare la luce con l’ombra, se mi spiego! Visivamente, io mi figuro un nodo che tiene stretti tra loro questi fili, uno di quei nodi impossibili da sciogliere se non recidendone una parte: a patto di riuscire a distinguere nettamente le componenti della matassa. Finirò di rispondere alla domanda con due citazioni: la prima, contenuta in Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, afferma che “nella carne e nel sangue di ognuno rugge la madre”. L’altra, consiste nella teoria meno accreditata – eppure irresistibile – circa la controversa etimologia della parola amore, che la vede composta di a- (alfa privativo greco) e mors (in latino morte, infelicità). Amore significa dunque assenza di dolore, di morte? Che cosa genera che cosa?.
D. A proposito di citazioni, un altro elemento caratterizzante de “Le bambine non fanno pipì in piedi” è il riferimento continuo ai classici: latini, greci, italiani, francesi. Perché tale scelta?
R. Per quanto incredibile, devo rispondere che non si è affatto trattato di una scelta: sono stati “loro”, in effetti, a presentarsi al mio cospetto nei momenti chiave della storia, ogni qual volta mi rendevo conto che la potenza della mia parola non sarebbe potuta bastare a descrivere il momento, impedendo il decollo della narrazione fino al suo apice estremo. Nella vita, non sempre è ben accetta la sensazione di doversi abbandonare a forze esterne per riuscire in un’impresa, di qualsiasi genere essa sia: ecco, con infinita gratitudine ammetto invece di essere stata letteralmente tratta in salvo dal Sublime, inteso alla maniera di Schiller, “quel sentimento grave e taciturno che ci porta al di là dell’abisso vertiginoso ed è la sintesi tra un senso di pena che si manifesta come brivido e senso di letizia”. Tale è la portata della liberazione che devo alle mie reminiscenze di studio e a più recenti letture poi riportate nel mio romanzo».
D. Credi che la forma del romanzo sia più funzionale ed esplicativa rispetto a quella di un saggio per trattare un argomento come l’intersessualità?
R. No, tutt’altro. Non mi stancherò di ripetere l’importanza di una corretta informazione al riguardo, che dovrebbe giungere innanzitutto dall’ascolto dei diretti interessati: dunque, niente è forse più opportuno di un saggio che affianchi alle teorie medico-scientifiche il maggior numero possibile di testimonianze di cosiddetta “vita vissuta”. Il mio intento era invece quello di scrivere una storia tra le possibili storie del nostro faticoso essere umani, una storia che squarciasse il velo dell’ignoto, del non conosciuto, spesso comune fonte di sofferenza tanto nella vittima quanto nel carnefice, i cui ruoli, nella vicenda che ho deciso di narrare, sembrano in effetti divenire interscambiabili. Come autrice di un romanzo di formazione, non di un saggio, esorto dunque i lettori con le parole del monaco buddhista giapponese Deshimaru Taisen: “Non cercate la verità. Evitate soltanto i pregiudizi”. Poi, come autrice di un romanzo di formazione il cui protagonista subisce nell’infanzia ciò che molti bambini hanno davvero subìto, aggiungo: una volta evitati i pregiudizi, mettetevi in cerca della verità.
Romanzo di formazione, denuncia sociale, storia tra le possibili storie della vita, Le bambine non fanno pipì in piedi racchiude i concetti di Amore, Morte, Identità, intesa come percezione di sé e senso di appartenenza ad un mondo che non ha accettato di accoglierti così come sei nato, a cominciare proprio da chi ti ha partorito.
"Nella carne e nel sangue di ognuno rugge la madre", scriveva Pavese, e nel suddetto romanzo aleggia perenne l'impronta di una madre che ha appoggiato l'arbitraria scelta medica di risolvere chirurgicamente l'ambiguità genitale del proprio neonato; questa donna non vede -o non vuole vedere- la follia di tale decisione, restando negli anni cieca di fronte all'evidenza dell'errore commesso.
Sullo sfondo di un'infanzia negata, la vita del protagonista -oggi raffinato e sensibile traduttore di testi classici messi in scena con la propria compagnia teatrale- scorre sospesa tra il continuo miraggio di una serenità possibile e la potente alienazione che ne permea il quotidiano.
Ovunque è Morte, e sibillino, il Dubbio serpeggia tra le pagine del racconto: che cosa genera che cosa? Può, un individuo che ha subìto l'abuso del mondo adulto alla nascita, risolversi ad essere a sua volta adulto? Ha forse finito per essere irrimediabilmente scalfito nella propria essenza da un destino di cui non è più l'autore? Possono esistere Amore e Vita quando un vero e proprio atto di morte è stato compiuto, sopprimendo all'origine un'identità a discapito dell'altra?
Dove cercare, adesso, la Verità?
Non puoi accontentarti di essere una lesbica? Se lo sente chiedere da sua madre, Lorenzo – all’anagrafe Loredana, protagonista de “Le bambine non fanno pipì in piedi” libro che affronta, come già abbiamo detto, il tema dell’ “intersessualità” e dei problemi fisici e psicologici che spesso accompagnano chi nasce senza un genere ben definito dai criteri standard che distinguono tra maschio e femmina
Non si tratta di omosessualità o di transgenderismo (ovvero la mancata corrispondenza tra il genere fisico e quello nel quale ci si identifica). Come si legge nel documento Standing up for the human rights of intersex people pubbliicato a dicembre 2015 da Ilga Europe in collaborazione con Oil (Organisation intersex international Europe); le persone definiteintersessuali sono nate con caratteristiche sessuali come genitali, cromosomi o risposte ormonali che non appartengono strettamente alle categorie "maschio" o "femmina", o appartengono a entrambe le due categorie.
E anche se in genere queste differenze si colgono già al momento della nascita ci sono anche casi in cui l'intersessualità viene scoperta solo più in là nel tempo, a seguito di un esame medico svolto per altre ragioni e che rivela, per esempio, la presenza di ovaie in una persona "apparentemente maschio".
Secondo le stime più recenti gli intersessuali rappresentano un caso su 200 nati e ancora oggi spesso sono considerati come soggetti "da curare" per riportare le caratteristiche sessuali a quelle di un genere specifico attraverso un intervento chirurgico o a trattamenti ormonali a vita. Il sesso deciso a tavolino da medici e genitori però non sempre corrisponde a quello nel quale la persona si identifica e questo può avere conseguenze estremamente negative in termini di sviluppo psicologico e delle relazioni sociali.
«Se continuiamo a ragionare secondo un sistema binario fatto solo di maschio e femmina non arriveremo mai a una soluzione» continua Tommasini che poi aggiunge: «Mentre riflettevo sulla storia di Lorenzo/Loredana mi sono chiesta cosa fosse davvero necessario e la risposta mi è subito stata chiara: è necessario essere felici».
C'è però un problema: non tutti trovano la felicità nelle stesse cose e seguendo gli stessi percorsi e di conseguenza per alcune persone intersessuali il genere "assegnato" alla nascita rappresenta una vera e propria condanna. Anche per questo una delle battaglie più importanti di chi si occupa di diritti degli intersessuali è quella che chiede di abolire gli interventi chirurgici e medici effettuati alla nascita per "correggere" il genere.
Bisogna accettare il fatto che il sesso è in realtà uno spettro di condizioni diverse e che esistono persone con varianti delle caratteristiche sessuali.
In Europa gli intersessuali sono ancora troppo spesso invisibili. «Ma queste persone - come chiunque altro - hanno il diritto di esistere in quanto tali, senza essere costrette a scegliere, oppure a subire le scelte di altri dettate da linee guida mediche obsolete o pregiudizi di una società che ragiona per compartimenti stagni» conclude Tommasini.
Nota mia : la situazione descritta in queste pagine risale all’anno di pubblicazione del libro, il 2006. Non so, quindi, se, nel frattempo la situazione sia cambiata.
NB: Di questo libro è possibile vedere su You tube la Graphic Novel: “Le bambine non fanno pipì in piedi”
L’autrice:
Domiziana Tommasini è nata a Pisa nel 1984. Raggiunta una controversa maturità classica, ha frequentato per alcuni mesi la Facoltà di Psicologia, nonché per alcuni giorni quella di Lettere moderne, decidendo poi di arruolarsi nelle fila di una famosa catena di abbigliamento spagnola. Irriducibilmente desiderosa di Sapere ha comunque scelto di non chiudere né i libri né gli occhi. Le bambine non fanno pipì in piedi è il suo primo romanzo, arrivato tra i finalisti nella categoria “esordienti” alla quarta edizione del Premio Zanibelli.
Luca Ricci
L’AMORE
E ALTRE FORME D’ODIO
Ho conosciuto Luca Ricci, scrittore pisano, il 22 febbraio del 2007, in un incontro al salotto letterario Pinkhouse, diretto da Mariangela Casarosa. In quell’occasione presentai il suo libro di racconti “L’amore e altre forme d’odio”. Poi, il 24 maggio, sempre del 2007, insieme al mio collega, prof. Maurizio Antonelli, presentammo di nuovo questo e l’altro, “La persecuzione del rigorista” nell’auditorium dell’Istituto tecnico “Santoni” di Pisa, dove io e Maurizio insegnavamo. L’incontro faceva parte di un ciclo di iniziative titolate “Mattinate narrative” durante le quali organizzavamo incontri tra scrittori e studenti. Luca aveva trentatré anni e con quel libro nel 2006 aveva vinto il Premio Chiara. L’incontro riscosse un notevole successo anche grazie alla simpatia di Luca che riuscì ad empatizzare subito con i numerosissimi studenti.
Perché questo breve prologo? Beh, innanzitutto per confermare che esistono i corsi e ricorsi; infatti, oggi, a distanza di diciassette anni sono di nuovo qui a parlare di questo libro che, a quel tempo, mi ricordava un po’ il Raymond Carver di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” (1981) , per lo stile e la brevità, stilemi del minimalismo, anche se, nei racconti di Carver i finali sono sistematicamente e volutamente interrotti senza nessun nesso logico. L’azione si ferma come in un fotogramma, si congela. Starà al lettore, se ne avrà voglia, immaginarsi un seguito. Nei racconti di Luca Ricci, invece, il finale, perché, considerata la brevità, il finale è fondamentale per capire la tematica della storia, crea, volutamente, un imprevedibile effetto di straniamento, grazie ad un’inedita percezione della realtà che rende le immagini e i protagonisti della storia imprevedibili, diversi comunque dalla percezione comune o banalizzata. Dove ci capiterà quindi di assistere ad un dialogo notturno tra un Lui che è uscito a fumare una sigaretta perché non riesce a dormire per la moglie che russa, con la vicina, uscita anche lei per lo stesso motivo (il marito russa). Poi, quasi in una parodia del “Doppio sogno” di Schniltzer, rientrati in casa, i due confessano ai rispettivi coniugi di aver sognato di fare all’amore, lei, con il vicino, lui, con la vicina (Notte di sole), o l’omologazione che passa anche attraverso una veranda che una giovane coppia di sposi si accorge di non avere nella propria villetta acquistata da poco e che sarà motivo di ghettizzazione da parte dei vicini che invece la veranda ce l’hanno. (La veranda) o nel surreale sdoppiamento erotico di un Lui che è l’amante clandestino di una commessa con cui fa l’amore, furtivamente, nei camerini del negozio, salvo poi sorprendere noi lettori, rivelandoci, che la commessa altri non è che la propria moglie (Complicazioni)
Misi la mano sotto per accertarmi di non essermi sbagliato. Si trattava proprio del perizoma di tulle, con il triangolo posteriore formato da maliziose perline. Per provocarmi, e con ogni probabilità insidiarne il ruolo, si era messa l’intimo che avevo comprato a mia moglie.
Scrive, a proposito di questi racconti, Guido Davico Bonino:
“I ventuno racconti compresi in questo volume delineano un’etologia del quotidiano all’insegna dell’incubo e della violenza. Verrebbe da dire che l’incubo è la forma del libro e che la violenza ne è il contenuto : anche se, voglio precisarlo subito, si tratta di un incubo di cui il narratore ci lascia appena intravedere i contorni, e di una violenza che si concede a stento e sempre a grande distanza, sullo sfondo di un orizzonte remoto. L’incubo scaturisce a tratti da una serie di scompensi: tra immaginazione e realtà, tra norma e anormalità, tra passato e presente. La violenza talvolta si rapprende in oggetti simbolo, talaltra aleggia come semplice minaccia, e solo in rari casi si scatena in microaggressività. Le sue cellule d’elezione sono la coppia e la famiglia. Ricci si china su esse con caparbio puntiglio e al tempo stesso con straniato distacco. Il risultato è uno stile minuzioso e traslucido, che procede per nessi impalpabili fino a slittare verso epiloghi inattesi (…)”
E infatti l’aprosdoketon (il finale a sorpresa) è un’altra caratteristica di alcuni di questi racconti.
“Un murales dipinto sopra il letto diventa il grafico delle disgrazie di una coppia, una lezione di geografia degenera in una vendetta fra ex coniugi, un bastone da passeggio abbandonato incrina le certezze di un giovane padre. Nel chiuso delle stanze matrimoniali, dietro l’apparente tranquillità delle villette a schiera, si cela un’aggressività pronta ad esplodere, un universo domestico dove ognuno nasconde un segreto. Luca Ricci racconta i piccoli e grandi incidenti di cui sono fatte le nostre giornate, ma anche la fantasia, l’erotismo, le complicità che animano “quel gruppo insolito, denominato famiglia”. Ecco che allora la vita di coppia si trasforma in una passeggiata su un campo minato. Questi ventuno racconti brevi mettono a fuoco il momento esatto in cui si inceppa il meccanismo dei “giorni tutti uguali” e ci consegnano personaggi che vivono, amano e odiano in un solo gesto, perché “quando le cose cominciano a rotolare viene voglia di seguirle, buttarsi con loro a peso morto.”
Ecco, questi in sintesi, (dalla quarta di copertina) alcuni degli ingredienti di questi racconti.
Ovviamente Luca Ricci ha scritto molto altro e lo accennerò nel profilo finale, ma ho voluto parlare di questo suo libro che, insieme agli altri “La persecuzione del rigorista” e “Il piede nel letto” mi avevano particolarmente colpito per freschezza e originalità.
Ora, come al solito e quando è possibile, riporto questa intervista rilasciata da Luca Ricci per “Limina” a Stefano Malosso.
L’errore che abita le case. Una conversazione con Luca Ricci.
Malosso: L’amore e altre forme d’odio è tra le tue prime opere, e già nel titolo custodisce il tema amoroso, che poi attraverserà le tue opere a venire fino alla quadrilogia delle stagioni con Gli autunnali e Gli estivi. L’amore come motore narrativo?
Ricci: I racconti brevi che compongono L’amore e altre forme d’odio sono stati scritti nei primi anni del 2000. All’epoca ero un ragazzo di brutte speranze, arruffato, sempre con l’aria di uno che si è appena svegliato o ha appena scopato, un po’ borderline riguardo alla propria vita, per niente convinto che la sua strada fosse quella degli altri (scegliere una facoltà, studiare, laurearsi), abbastanza indifeso nelle relazioni umane (cosa in cui mi sento di essere cambiato pochissimo). Soltanto sulla scrittura avevo le idee chiare. Ero radicale, un talebano. Non m’importava tanto del tema quanto del modo in cui scrivevo i miei racconti. Pur amando diversi maestri – Maupassant, Buzzati, Carver – volevo cercare una strada mia, assolutamente originale. La cura dell’aspetto formale occupava la maggior parte del tempo che dedicavo alla scrittura e alla lettura (la lettura, soprattutto nella fase di apprendistato giovanile, è un aspetto inscindibile dalla scrittura). Per questa ragione l’amore neanche lo consideravo, sapevo che tutto lo sforzo sarebbe andato al “come” e non al “cosa”. Mi ricordo anche di aver pensato che in fondo chi non può parlare di niente parla d’amore, un sentimento che chiunque ha provato o crede di aver provato. Era un tema che in un certo senso mi faceva ribrezzo, perché era il refugium peccatorum di tante mezze calzette ombelicali. A maggior ragione da un punto di vista formale avrei dovuto essere impeccabile, una macchina da guerra. Quando parlo di forma non parlo solo di stile, ma di struttura, ritmica, dinamica. Soltanto qualche tempo dopo mi resi conto che l’amore in fondo è una delle ossessioni della letteratura. Lo è perché rappresenta un problema senza soluzione, è un tema universale prima che sociale.
M: È soprattutto, guardando a racconti come Fantasma, quaderno o Complicazioni, una variabile incontrollabile dell’essere umano, un binario che spesso può diventare una porta verso l’odio.
R: Faccio sempre fatica a mettere a fuoco questo o quel racconto. Credo che sia una delle prerogative del libro. L’ho pensato proprio come una somma di storie, e non come una raccolta di racconti distinti. Certamente, come ogni vero libro di racconti, ogni pezzo è allo stesso tempo indipendente e dipendente dal resto, ma qui c’è la volontà di costruire un dispositivo modulare, che funziona come un domino composto di tessere molto simili tra di loro, anche se non identiche. Per ottenere questo effetto di uniformità, ho messo in atto delle regole compositive molto rigide. Uso un io narrante asettico, benché interno, che racconta solo i fatti, senza nessun altra riflessione, tant’è vero che alcuni hanno parlato di una paradossale prima persona oggettiva; i personaggi sono decostruiti, non hanno nomi propri (si chiamano con la funzione socio-familiare che ricoprono: marito, moglie, figlio, amante…), e spesso non vengono neppure descritti fisicamente; il mondo narrativo coincide con la casa, è uno spazio circoscritto, chiuso, ed è anche un non-luogo esattamente come una stazione ferroviaria o la sala d’attesa di un dentista: si può descrivere con pochissimi elementi (qualsiasi lettore completa la descrizione con la sua esperienza diretta); ricorro a una lingua strangolata, monocorde, e a una sintassi piana, con un lessico ampio (se voglio descrivere un personaggio che si soffia il naso userò la parola “fazzoletto” e non “kleneex”). L’effetto è una narrazione molto stilizzata, riconoscibile, che esalta le uguaglianze e tenta di annullare le differenze tra un racconto e l’altro, è un procedimento contrario all’iperrealismo che io mi sono sempre divertito a chiamare realismo astratto. L’amore e altre forme d’odio è la mia fase Piet Mondrian. L’amore c’entra con l’odio? Direi di sì, ma non nel senso che uno è il rovescio dell’altro, o almeno non soltanto, piuttosto sono sentimenti con una matrice comune, una forte dose di passionalità e irrazionalità.
M: Sentimenti che sembrano sempre serpeggiare in una strana commistione tra le mura domestiche, dove vengono covati e quasi “curati” con pazienza, nella schiuma dei giorni tutti uguali. E qui mi è quasi impossibile non pensare che questo libro sembra scritto direttamente nei giorni del lockdown, del confinamento coatto nelle case, nel recinto di ciò che chiamiamo famiglia.
R: È veramente una coincidenza assurda. All’indomani dell’uscita – era il settembre del 2006 – alcuni lettori mi dicevano: «Durante la lettura mi è mancata l’aria». È la stessa cosa che potremmo dire noi, rispetto a questo diabolico 2020: «Dov’è l’aria?». Ci sono due tipi di scrittori, quelli a cui interessa ciò che cambia nel corso del tempo, e quelli a cui interessa ciò che resta uguale nel corso del tempo. Io sono senz’altro della seconda specie. Non m’interessa molto l’attualità, da una prospettiva letteraria. Però m’interessa molto quello che resta uguale, le cose che non cambiano, rispetto agli sconvolgimenti storici. C’è un tratto asfissiante nell’amore che vuole edificare una famiglia, c’è proprio questa sorta di auto-confinamento delle coppie nello spazio assegnato loro dalla società, e quindi sì, L’amore e altre forme d’odio può essere letto anche come una galleria di case, dove tutto il resto, quel che è fuori dal quadro (oltre la soglia di casa), può essere solo intuito e agisce sul testo in modo indiretto. Se vuoi, è la teoria dei 7/8 dell’iceberg di Hemingway. Facciamo qualche esempio. Il finale del racconto Fantasma, quaderno: «Fuori, sistemai la roba sotto la sella della moto. Alcuni aghi di pino erano caduti sulle pedaline. Li tolsi con la suola della scarpa e avvertii come un dolore». Quando il marito/narratore esce di casa, percorre il giardino e raggiunge la moto, il racconto letteralmente finisce. Non può esserci racconto, fuori dai limiti spaziali auto-imposti. La soglia di casa diventa allora una discriminante fondamentale, una frontiera che delimita cosa è narrabile e cosa non lo è, quasi un’istanza ontologica. Il secondo capoverso di Sul bordo (titolo significativo, non ti pare?): «Poco dopo suonò il campanello e andai ad aprire. Fuori dalla porta trovai un uomo sulla quarantina (…) Indugiammo ancora un po’ sulla porta, senza dire una parola. Poi lo feci entrare. Quello fu il primo errore». È sempre un errore che spezza l’equilibrio iniziale e favorisce un movimento narrativo. Personaggi irreprensibili non darebbero corso a nessuna storia. In questo caso l’errore (il primo, quantomeno) consiste proprio nel far oltrepassare all’uomo la soglia di casa. Il narratore/marito commette lo sbaglio che genera il racconto. Tornando all’oggi, ai nostri tempi disgraziati, possiamo consolarci ammettendo che le coppie vivono da sempre in un lockdown. All’inizio sono spinti alla reclusione da un impulso elitario, che a poco a poco diventa la prigionia dell’abitudine.
M: Unico elemento in grado di rompere questa prigionia sarà forse, materialmente o attraverso gli svolazzi dell’immaginazione, la possibilità dell’altro. Lo sguardo desiderante dell’altro (la vicina di casa di Notte di sole), il corpo dell’altro (la commessa di Complicazioni), persino gli oggetti posseduti dall’altro (La veranda, La casa di fronte). La salvezza passerà forse da questa possibilità esterna?
R: Lo scrittore di racconti argentino Ricardo Piglia dice una cosa molto importante: «Il racconto è una narrazione che ne racchiude un’altra. La strategia del racconto è al servizio di tale narrazione cifrata. Come raccontare una storia mentre se ne racconta un’altra? Tale domanda sintetizza i problemi tecnici del racconto». Se la “salvezza” deve essere qualcosa che proviene da fuori, in grado di aprire una breccia nel mondo granitico di questi racconti, allora parlerei del fantastico. L’apertura che m’interessa di più è quella della declinazione del modo. Può un libro che prende le mosse dal minimalismo (quindi dal realismo) avere in sé i germi corruttori e quindi salvifici del fantastico? Può il fantastico essere il cavallo di Troia di questi racconti fortino?
M: Dunque dietro al tuo realismo c’è del fantastico?
R: Faccio anche in questo caso alcuni esempi. Notte di sole è un doppio sogno alla Schnitzler, marito e moglie sognano la stessa cosa, cioè l’adulterio: poco importa se lei a occhi chiusi e lui ad occhi aperti. La casa di fronte si basa sullo stereotipo della casa stregata, ostentando gli elementi horror proprio in vista di un finale che invece fa coincidere il mostro – nello specifico l’uomo nero, una rivisitazione dell’Orco Sabbiolino di E. T. A. Hoffmann – con la moglie dell’io narrante. Complicazione gioca su uno dei topos più cari al fantastico, ovvero quello del doppio. L’io narrante non si trova di fronte a due donne uguali (mi viene in mente Bruges la morta, capolavoro del decadentismo belga), ma è lui stesso che per cercare una via d’uscita alla routine coniugale sdoppia una donna sola. Ogni cosa dovrebbe possedere il suo contravveleno, il suo rovesciamento cifrato, e non soltanto sul piano narrativo. Ma torniamo per un attimo al tema, quel tema da welfare che è l’amore (se non riesci a trovarti un tema, la vita ti darà d’ufficio l’amore): ecco, l’amore ha senso soltanto se viene messo in relazione all’odio. Questa visione dualistica, costruita su opposti (magari apparenti) è uno dei motivi essenziali de L’amore e altre forme d’odio. Dentro un racconto ci devono sempre essere due cose, la prima è ben visibile e la seconda è nascosta bene. Forse anche per questo Nathaniel Hawthorne, uno dei padri spirituali del racconto americano, intitolò una sua celebre raccolta Racconti narrati due volte.
M: E credi che, in quest’ottica degli opposti, la pandemia che sta colpendo il mondo influirà, chissà in quali forme, nelle future forme di narrazione del reale?
R: Influirà senz’altro nella misura in cui il tempo e gli accadimenti hanno sempre influenzato la letteratura, che è una distorsione, che è una trasfigurazione, ma chiaramente prende le mosse dalla cosiddetta realtà. D’altronde che cosa bisognerebbe distorcere o trasfigurare se non la realtà? L’orizzonte della letteratura è mitico-simbolico ma gli serve la realtà, si nutre di realtà. La letteratura, ancora prima di essere una finzione o una menzogna, è un sistema di segni che si configura come un’astrazione, ma per ottenerla serve, appunto, un mondo tangibile, tridimensionale, rilevabile da cui partire. È impossibile invece fare previsioni sul modo in cui questa pandemia e conseguente crisi economica (crisi del modello sociale capitalistico globalista?) cambieranno il punto di vista, sia esterno (collettivo) che interno (l’occhio dello scrittore). Le vie della letteratura sono imperscrutabili, e di fatto c’è un coefficiente abbastanza alto di oscurità nelle opere che scriviamo, anche e forse soprattutto quando sono ispirate ai più ligi principi cartesiani. Diciamo che lo scrittore è costretto tra due tipi di sforzo: il primo è conscio e riguarda la logica, il corretto dominio formale sul proprio materiale narrativo; il secondo è inconscio (ma non meno faticoso) e riguarda tutte quelle scelte istintive che investono parole, frasi e periodi, immagini, significazioni testuali. Lo scrittore deve essere al massimo grado questo tipo di bestia erudita, non sapere niente per far brillare le proprie percezioni, e al contempo sapere tutto per riuscire a organizzarle e gestirle. Il linguaggio è la sintesi perfetta di questi due aspetti, è l’elemento liminare per eccellenza, riguarda la sfera razionale (la scolarizzazione e la lessicografia) e irrazionale (l’infanzia e l’emotività) dello scrittore.
M: Anche L’amore e altre forme d’odio può essere un buon testo per spiegare questa dicotomia da equilibrista?
R: Sì, perché da un lato c’è stato uno studio certosino della forma, dall’altro un approvvigionamento costante da un pozzo molto profondo. I primi beneficiari dei libri devono essere per forza di cose i loro scrittori. Se un libro diventa prevedibile, non solo negli esiti narrativi ma perfino nelle conseguenze sulla realtà (esempio: tutti quei libri scritti con l’intento di volersi fare megafono di un tema specifico, e che puntualmente ci riescono), vuol dire che qualcosa è andato storto. Un libro deve poter creare non solo il proprio futuro ma anche il proprio passato. Qualche giorno fa è successa una cosa che mi ha commosso, direi addirittura sconvolto. Su Facebook mi sono imbattuto in una citazione da un racconto di Ingeborg Bachmann del 1961 intitolato A un passo da Gomorra, che avrebbe potuto benissimo essere uno dei cardini teorici del mio lavoro, cominciato soltanto mezzo secolo dopo. Metto la citazione, e per finire ti dico che i libri fortunati devono produrre luce ma anche ombra: «… il matrimonio è una condizione più forte degli individui che lo contraggono (…) In qualunque modo lo si viva, un matrimonio non può mai essere vissuto liberamente, mai in modo creativo, non tollera innovazioni né cambiamenti.
Concludo, riportando per intero questa interessante recensione de “L’amore e altre forme d’odio” di Francesca Mazzucato tratta da “Book and other sorrows”:
In questo libro ho incontrato l'horror più affilato e spietato che mi sia mai capitato di trovare in un libro, in un film, in un quadro. Qualcosa di simile è rintracciabile solo nei pensieri, nei brandelli di vita che emergono contro la nostra volontà quando abbassiamo le difese, nelle cose losche e indecifrabili che portiamo dentro, ben stipate, sperando che l'involucro tenga. Ho trovato un horror avvolto in una scatola di latta di quelle dei biscotti al burro, in un pacco da festa di compleanno, in una confezione elegante foderata di carta leggera. Non si tratta di "horror" nel senso classico del genere, ma di una dimensione di "orrore del quotidiano" della quale Luca Ricci ci offre spietati, divoranti, incredibili quadretti. Il libro si intitola "L'amore e altre forme d'odio" , Einaudi 2006, e Guido Davico Bonino definisce splendidamente il rapporto fra forma e contenuto rintracciabile nella scrittura di Ricci all'inizio del libricino ( non lasciatevi ingannare, è breve ma denso e spesso) dove afferma, tra l'altro, di considerarlo uno degli scrittori più originali della sua generazione. Io condivido. Ma di che tipo di originalità si tratta? E dove va Ricci a trovare i temi e gli spunti per renderci questo orrore affilato e sottile, dove gli slittamenti avvengono per movimenti impercettibili, per un rotolare appena delineato che procede lasciando smarrito e sorpreso il lettore? Nel contesto, negli interni, nel quotidiano, nella vita di coppia e nella famiglia. Sono storie all'apparenza piccine ma in realtà enormi. In un racconto si tratta di una veranda, tutta la questione drammatica si svolge attorno al problema di una veranda che dovrebbe esserci ma non c'è, oppure di biancheria intima, di meringhe, di piselli. Con una scrittura che non ammicca, che non cerca l'effetto speciale ma che lo stana nelle cose, ecco l'orrore, il disastro che si fa sempre più vicino, che diventa palpabile, che strozza, che fa mancare l'aria. Negli interni si consuma la grande tragedia del vivere sotto forma di vessazioni prima minuscole e poi intollerabili. Negli interni ci si divora l'un l'altro senza rispettare regole naturali, senza rispettare niente. Nella condivisa finizione del rispetto di tutto. Convenzioni, feticci, rituali. Abile Ricci ci consegna elementi di vite plausibili come la nostra o come quelle dei nostri vicini di pianerottolo, storie di rientri, di lampade, di feste comandate, di cucina, di inviti. Ci consegna queste storie che hanno un odore non alieno, non differente. E' la prova a cui occorre sottomettersi, l'istantanea identificazione e poi il colpo. Quello che ti fa indietreggiare, che ti lascia esterrefatto, lettore smarrito che credeva di trovarsi fra percorsi consueti. Il colpo. Narrato in brevi racconti dove i protagonisti non hanno nomi ma ruoli, e non è certo una scelta casuale. Appaiono per un pochino luminosi, impeccabili, con i tasselli della loro vita al posto giusto, parte di un mandala che non verrà distrutto con un gesto della mano, che rimarrà solido e perenne per salvare, accogliere e custodire. Infatti il contesto resta. Il puzzle non viene distrutto. Viene eroso dall'interno. Ricci gli toglie la pelle, lascia che liquidi di varia natura, puzzolenti e disgustosi, colino dalle parole ineccepibili. Eleganti. Lo strazio avvolto di satin è rapido come un proiettile vagante. E' vischioso come la mediocrità che ti è stata raccontata con un ritmo suadente, senza fartene accorgere del tutto. E' un abito di merletto che si trasforma in muffa.
E con questo, spero di avervi incuriosito a tal punto da spingervi a leggere questo che, a prima vista, sembrerebbe un libriccino, ma, che dopo solo poche pagine ci immette in un universo narrativo originale e spiazzante, quasi come una corsa sulle montagne russe.
L’autore
Luca Ricci è nato a Pisa nel 1974 e vive a Roma. Ha scritto L’amore e altre forme d’odio (2006, Premio Chiara, nuova edizione La nave di Teseo, 2020), La persecuzione del rigorista (2008), Come scrivere un best seller in 57 giorni (2009), Mabel dice sì (2012), Fantasmi dell’aldiquà (2014), I difetti fondamentali (2017). Per La nave di Teseo ha pubblicato Gli autunnali (2018, in corso di traduzione nei principali paesi europei), Trascurate Milano (2018) Gli estivi (2020) e Gotico rosa (2024). Insegna scrittura per Scuola Holden, Belleville, Scuola del Libro e Scuola Fenysia.