Maurizio Gazzarri "Vita fronte retro"
di - mercoledì 21 maggio 2025 ore 08:00

Tertium non datur
Effettivamente, dopo “I ragazzi che scalarono il futuro” (ETS, 2018) ed “Elea 9003” (Editori di comunità, 2021) , due romanzi storici sulla storia dell’Informatica , ci si aspettava, a conclusione della trilogia, un terzo libro sullo stesso argomento e invece no; Maurizio Gazzarri ci ha stupiti e disorientati, attuando una sorta di “conversione estetica” , quasi sul modello leopardiano dal “vero” (dei romanzi storici) al “bello”, dove per bello si vada ad intendere, una narrativa di immaginazione e fantasia, anche se, come vedremo, ricca di spunti filosofici.
Ed ecco, infatti, il terzo, inaspettato e originalissimo libro di racconti “Vita fronte retro” (MdS, 2025), frutto di questa “conversione”.
Iniziamo quindi, come di consuetudine, a presentare in breve la sinossi del libro, ripresa da Toscana libri. It
"Vita fronte retro" è una raccolta composta da ventiquattro racconti, come le ventiquattro ore di una giornata. Ogni storia è un frammento, un lampo, un piccolo universo che si apre e si chiude nel tempo di una lettura breve, ma che lascia una traccia profonda. Le voci e i personaggi che si alternano – talvolta esili, talvolta incisivi – ci parlano della condizione umana attraverso dettagli minimi, scarti improvvisi, rivelazioni intime.
Ci sono storie d’amore e di solitudine, di fallimento e resistenza, di memoria e identità, ambientate in luoghi riconoscibili o immaginari, che oscillano tra il sogno e il quotidiano, tra il paradosso e il realismo più schietto.
Gazzarri costruisce un libro che, pur nella varietà dei toni e degli stili, trova una coerenza profonda nello sguardo sull’umano: uno sguardo laterale, affettuoso, ironico, e a tratti spietato.
Un “mosaico della nostra condizione umana”, come lo definisce l’editrice Sara Ferraioli, “che tiene insieme la fragilità e la bellezza, l’attimo e la cicatrice, l’assurdo e la grazia”.
Tra le pagine si muove una folla silenziosa di personaggi: chi aspetta, chi cerca, chi torna, chi non ha mai avuto il coraggio di partire. E ogni racconto è come una finestra affacciata sulla soglia invisibile tra quello che siamo e quello che potremmo essere.
E aggiungiamo a questo commento, la sintesi che si trova nel retro di copertina:
(…) Quante persone si incrociano nell’arco di un giorno, nei sogni notturni, sul lavoro, nelle case, per strada? Cos’hanno da dirci e da darci quelle persone? Città vere e luoghi immaginari. Persone esistenti e personaggi inventati. Esperienze vissute e voli pindarici. Amori roventi e morti freddissime. Individui da evitare e altri da abbracciare. Una raccolta di racconti con molti capi e con tante code. Un assortimento di stili e di argomenti. Con un filo conduttore: l’umanità vista di sbieco. Si narra di pazzia, di povertà, di uomini e donne che ci sfiorano, di scritte sui muri, di zuppa di legumi, di addii dolorosi, di vendemmia e di talea, di gatti, di macchine per scrivere, di cattiveria e di tenerezza. Di vita, fronte retro.
Osserva acutamente Lietta Manganelli, nella sua nota introduttiva al libro:
Racconti che hanno il potere e la capacità di farci entrare nella storia, di farne parte, se non addirittura di esserne protagonisti (…) Una fantasmagoria di racconti divisi in tre sezioni “Vette, Fantasie, Dirupi” che servono più che da contenitore, da fonte di ispirazione e da traccia e nei quali sono disseminati in maniera diversa echi calviniani de “Le città invisibili”, o il garbo di Rodari e certi andamenti manganelliani.
La tripartizione tematica, pensata dall’autore, mi ha subito proiettato, per analogia, in una dimensione “dantesca”, anche se “rovesciata”. Qui, infatti si inizia con “Vette” che, verticalmente e in altezza, fanno pensare al Paradiso, poi un intermezzo “Fantasie” che potrebbe, ipoteticamente, costituire una sorta di aspirazione e/o desiderio, e, infine “Dirupi” che, evocando l’abisso e la profondità, richiamano l’ Inferno. Ma, in questo libro, niente è come sembra e, non a caso, ho usato prima un aggettivo “rovesciata” e, non a caso, Lietta ha citato, tra le fonti, l’immenso Giorgio Manganelli, maestro indiscusso del rovesciamento e dello straniamento; infatti le storie di Gazzarri, per tematiche e stile, richiamano in qualche modo i cento piccoli romanzi fiume di “Centuria”.
Ed è proprio partendo dallo straniamento che ho identificato il genere narrativo con cui definire questi ventiquattro racconti: quello dei “contes philosophiques” sul modello di Voltaire che ne fu l’ideatore, seguito poi da Diderot e Montesquieu.
Lo “straniamento” per Sklovsky, ha il potere di rendere l’immagine nuova, imprevedibile, diversa dalla percezione comune o banalizzata, fornendoci una inedita percezione della realtà; e questo, di fatto, porta quindi a “rovesciare” il senso comune; da qui “fronte/retro”.
E infatti il “conte philosophique” usa la tecnica narrativa del rovesciamento delle prospettive e dei giudizi (o pregiudizi) del senso comune, utilizzando una scrittura leggera, densa d’ironia e sottintesi. Ma un altro merito principale del “Conte”, come nota Diderot, consiste nella vivacità e nella varietà dei racconti, nella eterogeneità delle narrazioni, ed è questa la cifra stilistica di Gazzarri . cui fa da sottofondo una, neppure troppo sfumata, riflessione critico – filosofica.
Emergono in filigrana, tra il tragico e il comico della narrazione, personaggi sospesi, qualcuno alla ricerca di un senso, qualcun altro di una carta igienica tragicamente assente , un morto ammazzato da molti oppure suicidatosi per caso, oppure l’ultimo uomo sulla terra ad avere soltanto due occhi e Erica che però si chiama Talea, perché le parti del suo corpo che si staccano o che le vengono tagliate, ricrescono…
Perché nei racconti di Gazzarri troviamo anche calembour, neologismi e non sense da gustare, grazie a divertenti sciarade, magari al Bar Ando o al Bar Betta, evitando accuratamente il Pub Algia.
Ma diamo adesso, finalmente, la parola all’autore che nel racconto “Legumi e legami”, (Vette) in virtù di un semplice cambio vocalico, sviluppa un parallelismo tra gli ingredienti necessari per una buona zuppa e quelli indispensabili alla nostra esistenza:
Adesso capisco quando mia zia diceva che non esiste una ricetta e che tutto dipende dagli ingredienti che si hanno. Come nella vita, del resto. Non esiste una ricetta per la felicità, bisogna fare con gli ingredienti che si hanno e con quelli che siamo capaci di costruirci.
Piccola pillola, questa, di filosofia prêt à porter …
O quando, in “La costola del libro” sviluppa una sensuale equazione tra la donna e i libri:
Il fulcro di tutto è l’odore. Nei libri e nell’amore (…) Mi sono innamorato di una libraia perché lasciava una scia di libro Adelphi. Sì, c’è un legame tra lettura e amore. Anzi tra libri e donne. Perché non è vero che la donna è nata da una costola dell’uomo. La donna è nata dalla costola di un libro.
E ce n’è anche per chi coltiva in modo paranoico il culto dell’immagine, dei selfie, della dipendenza dalle telecamere piantate sulla faccia. Ecco come in “Il paese in diretta” (Fantasie) Gazzarri ironizza, giocando con il paradosso:
Ed eccolo che arriva, si avvicina senza timore, l’ultimo uomo sulla terra ad avere soltanto due occhi. (…) chissà come fa a guardare il mondo senza un obiettivo puntato sulla faccia, senza una telecamera che memorizzi ogni parola, ogni smorfia, ogni pensiero. Chissà se è brutto, oppure è bello. Quasi quasi glielo vado a chiedere. Quasi quasi scendo a dare una controllatina a come si vede il mondo con due occhi soltanto. Quasi quasi …
In “Fantasie” si sente maggiormente l’eco delle suggestioni calviniane e rodariane, sempre e comunque tinteggiate dalla timbrica manganelliana ed ecco che ci troviamo a camminare in una città senza strade in un anno diviso in sette strane stagioni (felicitezza, tristità, serenitezza …) o in una città dove si svuotano soffitte e nostalgie e dove è possibile incontrare chi colleziona attimi …
E infine “Dirupi”, l’ultima sezione che si apre con un racconto “Lettere da qui” forse il più drammatico di cui così parla Lietta Manganelli nella nota introduttiva:
Il racconto “Lettere da qui” è invece un pugno nello stomaco, non il solo che riceverete: si riferisce a quelle lettere scritte dagli internati in manicomio ignorando che non sarebbero mai state recapitate.
Poi , dietro la parvenza di un viaggio immaginario, un nuovo percorso filosofico teso alla ricerca di un confine metaforico che somiglia molto al “varco” montaliano:
L’unica idea che mi sono fatto è che soltanto io, in questa parte di mondo, sono alla ricerca del confine. Confine, cioè fine condivisa. Una linea immaginaria, spessore zero, che divide il Diquà dal Dilà. Io so che Dilà c’è la ragione, la consapevolezza, una natura più rigogliosa, sentieri tracciati da chi ha già sbagliato. Di quà c’è l’incertezza, il dubbio, errori ancora da fare.
“Dirupi” si conclude con tre racconti decisamente comici e grotteschi che richiamano nello stile e nelle tematiche il primo Stefano Benni, quando faceva ridere davvero: la FIPILI che, come un buco nero galattico ingoia gli sventurati che osano entrarci, un tizio che muore per mano di cinque aspiranti omicidi e infine la disavventura dell’avvocato Angelini, un microdramma che si consuma nel cesso dell’Agenzia delle entrate, ma che non vi racconterò …