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mercoledì 04 dicembre 2024

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Piero Pancanti, L’albero delle nespole

di - lunedì 09 settembre 2024 ore 08:00

E finalmente un romanzo rusticano …

Ce lo regala in questa sua opera prima Piero Pancanti, novello epigono di Mario Pratesi e del Fucini delle “Novelle rusticane”.

“L’albero delle nespole” (Edizioni Felici, 2007) è il titolo di questo suo romanzo e già, neppure troppo a livello subliminale, il nespolo ci trascina immediatamente in un altro contesto storico e geografico, quello de “I Malavoglia” e della casa del nespolo appunto di padron ‘ Ntoni, anche se qui la storia è un po’ diversa.

Tra l’altro, come nota Alessandro Scarpellini nella sua post fazione, il nespolo, secondo antiche credenze, protegge dagli stregoni e dalle cattive magie, dagli spiriti che vogliono rubarti la vita e sottrarti la gioia e quindi è una pianta con virtù taumaturgiche.

E, sempre tornando ai Malavoglia, la fierezza di tipo antico di padron ‘ Ntoni, la ritroviamo anche nel protagonista di questa storia, Quinto, il capofamiglia, il capoccia:

Era fiero del suo lavoro. Era fiero della sua sposa e dei suoi figli. Era fiero della sua libertà.

… e soprattutto, come nota Patrizia Napoleone, nella sua prefazione, aveva già capito, ante litteram, quello che, tempo dopo, Don Milani fece materia di denuncia alle professoresse borghesi e per bene – l’importanza dello studio e della cultura

anche come mezzo per ottenere il riscatto dal padrone.

In questa atmosfera di fierezza e di onesta ribellione cresce il narratore in prima persona, assimilato al protagonista bambino e si snocciolano come grani di rosario, gli episodi familiari, le abitudini, gli aneddoti, rivisitati dalla memoria del capoccino , titolo dato al bambino da tutta la famiglia, perché maschio e perché a tavola, occupava il posto accanto al padre, il capoccia, appunto.

Così, attraverso gli occhi del capoccino (Andrea) sempre puntati sul capoccia (Quinto), si snoda la storia della famiglia, attraverso vari episodi; come ad es. … i traslochi:

Partirono una domenica mattina verso la fine di agosto portandosi dietro il cane Argo, un fagotto di roba da mangiare, qualche boccia di vino e lo stretto necessario per cucinare nei mesi avvenire. Sul motocarro preso a noleggio per l’occasione, furono caricate anche due gabbie di polli: in una c’erano le galline da uova, nell’altra dieci pulcini già svezzati da allevare.

Poi, negli spazi rimasti vuoti, furono messe delle poste di fieno necessarie a governare i conigli da ingrasso, che babbo aveva rinchiuso in una balla di tela rada, per far sì che potessero respirare. (…) Il motocarro si avviò, stracarico, barcollando giù per la viottola in direzione della statale. Avevamo tutti un groppo in gola.

… i fidanzamenti dei fratelli e delle sorelle maggiori, l’incipiente industrializzazione del dopoguerra che, come sirena, chiama dalla campagna i giovani dei campi, che vogliono riscattarsi dalla fatica della terra e odori di concime e di fiori …

Pancanti racconta con un linguaggio piano e posato, proprio come le cose di campagna, serio e preciso, come certi quadri naturalistici e già con qualche pennellata macchiaiola o impressionistica, impressioni di luce e di atmosfere e macchie di colori netti, ma sfumati ai contorni dall’alone del ricordo.

Anche il linguaggio, nota sempre la prefatrice, non è consueto e generico, ma lessicalmente connotato dalla nomenclatura dei lavori agricoli a seconda del succedersi delle stagioni, degli attrezzi per la cura dei campi e del bestiame, delle suppellettili rusticane.

Un episodio che segna in modo inequivocabile la volontà di emancipazione anche economica è l’acquisto da parte di Quinto del trattore:

“Il Bubba”, un Landini da trentacinque cavalli, era quello che raccoglieva maggiori consensi, essendo il più familiare, utilizzato di solito per la trebbia del grano, a turno, dai contadini della fattoria sull’aia comunale. Un trattore come quello incuteva fascino e terrore secondo l’età di chi lo osservava, soprattutto a causa del rumore, assordante e speciale al tempo stesso, del motore. Era un monocilindrico orizzontale di trentadue cavalli vapore. Era un “testa calda” con avviamento a cartuccia: una pasticca inserita in una “bocca di fuoco” assolveva alla funzione di pre – riscaldo della testata del motore. L’avviamento vero e proprio, però, doveva essere fatto a mano ed era un’operazione difficile e pericolosa: il trattorista, con la sola forza delle sue braccia, girava il grosso volano fino al punto di massima compressione poi, allentando la presa, come per magia, il motore lentamente prendeva a girare. Bum, bum, bum, era il suono potente di quel drago d’acciaio. Per questo era stato soprannominati “il bubba”.

Gli uomini e le donne, i bambini della scuola e del catechismo, i preti della parrocchia, i rituali domestici e sociali, la cena tutti seduti al medesimo tavolo, l’uso di andare “a seggiola” del fidanzato che ha fatto la promessa di matrimonio e il compito, in genere del più piccino di “reggere il moccolo”, la festa della comunione e quella del matrimonio, i preti della parrocchia, quello educatore e all’antica, che insegna catechismo e quello bello e furbo che seduceva le giovani massaie per “sante ragioni”, le riunioni del sindacato dei lavoratori della terra, formano un grande affresco, uno scenario sul quale si muovono in primo piano, osservati dal protagonista narratore i membri della famiglia, con le loro illusioni, affanni, fatiche che vengono dal lavoro e le gioie che derivano dall’amore e dal rispetto in famiglia, anche se, a un certo punto, Quinto che da agricoltore si sta trasformando in imprenditore, non esiterà, machiavellicamente, ad intrecciare una relazione con una delle due “padroncine”, mettendo in crisi il suo matrimonio, suscitando le gelosie della moglie e modificando l’ottica del narratore bambino che, nel crescere, ha umanizzato la figura del padre, scoprendone limiti e difetti e che finalmente sembra scoprire la madre, umbratile presenza nella prima parte del racconto e poi sempre più in primo piano, con la sua bellezza, la sua forza contadina, la sua intelligenza ordinatrice nella conduzione della famiglia e nella gestione della casa.

Ed ecco come il narratore bambino racconta l’incontro con “le padroncine”:

“Si mettano pure a sedere”, disse il capoccia, con un tono affettato e con ampi gesti, rivolto alle signorine Alesi, al fattore, e aggiunse: “Vado al piano di sopra a prendere il quaderno delle entrate e delle uscite … fra un attimo vi potrò illustrare con esattezza l’esito della gestione annuale del podere, ad oggi trenta settembre, anche se i bilanci, di norma, andrebbero fatti a fine dicembre.” Quella inusitata gentilezza fu una piacevole sorpresa per tutti; la mamma, mentre nostro padre saliva a due a due le scale, propose agli ospiti una tazza di caffè: “ se non si mette qualcosa di caldo nello stomaco, a quest’ora, si rivoltano le budella e il fisico ne soffre tutto il giorno”, disse con un’espressione sarcastica che non lasciava dubbi circa la sua irritazione per i modi leziosi con cui babbo trattava “le padroncine”, la signorina Caterina in particolare.

Il tratto originale di questa narrazione consiste nella metamorfosi dei rispettivi punti di vista del capoccia e del capoccino. Quinto che aveva fondato tutto sulla famiglia e sulla terra, dovrà ammettere che la famiglia non è più quella di prima e dentro ci stanno anche le esigenze delle persone che la formano e scoprirà che anche il denaro, che non è terra, non è fatica, serve, è utile. Da questa nuova percezione, Quinto incomincia a nutrire qualche ambizione che, chissà, potrebbe portarlo a essere padrone di se stesso, rompendo il cerchio chiuso della ripetizione di destini di classe immutabili e da accettare come qualcosa di naturale, insomma quello che ne “I Malavoglia” era l’ideale dell’ostrica.

E il capoccino introietterà questi cambiamenti e, crescendo, ne sarà l’interprete.

C’è un finale un po’ triste però. Quando Quinto tornerà dal suo viaggio nell’Unione Sovietica grazie al quale si era prefisso come scopo quello di evadere da certe condizioni della famiglia e della società che incominciavano a stargli strette e troverà, al ritorno, la sua famiglia sfruttata dal nuovo padrone che sul suo terreno vuole costruire, ecco, a quel punto, capirà che quello è il simbolo della fine di un’epoca, della tradizione e dell’economia contadina e dell’avvento della speculazione edilizia.

In forma asciutta, ferma, senza sbavature sentimentali, con uno sguardo impietoso, perché senza ricerca di consolazioni, ma nell’accettazione della realtà e pietoso perché attento alle sorti delle creature umane e guidato dall’amore per la sua famiglia, il capoccino , che è cresciuto e vede le cose da uomo conclude il suo romanzo su babbo e mamma, con la semplicità piana che accompagna i racconti delle veglie d’estate, sull’aia calda o delle sere d’inverno davanti al camino.

Concludo, riportando l’ultima parte della post fazione di Alessandro Scarpellini:

La scrittura, per una magia che è ancora tutta da scoprire e sempre da svelare, fa nascere dal niente, dalla cenere del tempo che è stato, l’aia pietrosa, il cascinale scalcinato, i quattro fazzoletti di terra alla deriva in un mare di colline, i passeri presi nei nidi per gioco dai bambini, l’albero delle nespole, l’avvocato, il parroco Don Armando e il maresciallo dei carabinieri, le signorine Alesi, il fattore e la moglie Maria, il babbo e la mamma, i fratellini e le sorelline, il mondo della mezzadria, la signorina Laura che faceva la maestra, i compagni di classe. Regina portata via dal fiume e una moltitudine di persone. Come Miguel De Unamuno: “Preferisco i libri che parlano come uomini agli uomini che parlano come libri”

Altri libri di Piero Pancanti, poeta e scrittore cascinese: “Oniricum” (poesie) Tipografia Editrice Pisana, “Donne, uomini, animali”, Carmignani Editrice.


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