Ma cosa leggono gli operai oggi?
di Roberto Cerri - mercoledì 13 maggio 2015 ore 13:02
Una volta, quando ero ragazzo, più di mezzo secolo fa, gli operai leggevano giornali e libri difficili. Andavano a scuola, anche se avevano moglie, figli, più di trent'anni e per otto ore al giorno faticavano sui torni, alle presse o in verniciatura. Ok, spesso era una scuola di partito (ce n'era una in diverse province di questo ameno paese). Ma quello che conta è che leggevano, studiavano e si confrontavano con gente che ne sapeva più di loro: professori universitari, giornalisti di qualità, dirigenti di partito di un certo spessore. Grazie a questo la classe operaia, almeno a livello locale, divenne classe dirigente. Già, perchè un buon numero di operai, magari con la sola terza media, quando ce l'aveva, nel secondo dopoguerra divenne sindaco, vicesindaco e assessore non solo in comuni piccoli ma perfino in quelli di media grandezza come Pontedera, Cascina, San Giuliano, Empoli. E di operai assessori, se non ricordo male, ne ha avuti anche Pisa. Ok, i malpensanti diranno che le scuole di partito indottrinavano il popolo. Tutto vero. Ma, mentre lo indottrinavano, lo stimolavano a leggere testi complicati, e quindi a mettere in moto le rotelle del cervello, a farsi domande e a cercare risposte insieme agli altri. E confesso che quei testi erano difficili anche per noi studenti del liceo, che ci sentivamo “fighi” (allora si diceva “ganzi”) con i libri della Feltrinelli o degli Editori Riuniti sotto il braccio. Autori e titoli? Marx, Lenin, Luxemburg, Mao e loro epigoni. Tralascio le riviste politiche. Ma all'epoca gli operai leggevano anche quelle. Banalizzo, certo. Mi rendo conto. Ma leggere un articolo di Togliatti su “Rinascita” o di Giorgio Amendola o di Pietro Ingrao e trattenerne il filo e i concetti, vi garantisco che non era semplice. Per questo chi ci riusciva, chi arrivava a leggere, capire e “decostruire” un testo di Togliatti per poi saperlo rimontare insieme e anche solo recitarlo davanti ad un piccolo gruppo di compagni o nel porta a porta domenicale, quando i militanti andavano a vedere l'Unità, beh, quell'operaioaveva fatto un enorme salto di qualità, era diventato (anche senza saperlo) un promotore, un pubblicista, un venditore di idee, uno storyteller, uno che creava relazioni di qualità, che faceva del marketing virale per il suo partito, insomma un asfissiante agente del comunismo italiano, peggio del più insinuante dei commessi viaggiatori che vogliono venderci a tutti costi aspirapolveri e altri oggetti domestici.
E non basta. Gli operai, allora, facevano anche di più: scrivevano. Non sui giornali del padrone. Ovviamente. E nemmeno sui giornali di partito. Troppo complicato. Non erano abbastanza professionali. Però si erano inventati giornali di fabbrica che, con tutti i loro limiti, costituivano una voce significativa, facevano opinione, creavano comunità e costruivano relazioni. Producevano storie. Tutto questo oggi semplicemente non c’è più.
Non fraintendetemi. Non credo che la crisi della classe operaia e della sua incapacità di produrre leader e strategie significative anche a livello locale sia dovuta solo al fatto che gli operai oggi leggono e scrivono meno. Forse, ma non ci sono dati certi, potrebbe essere vero persino il contrario. Forse, presi individualmente, oggi gli operai leggono e scrivono perfino di più. Sono sicuramente più acculturati dei loro padri e dei loro nonni degli anni '50 e 60. Di sicuro scrivono molto su facebook. Ma bisticciare o argomentare in rete, navigare sui social network, non è come produrre una comunicazione decostruita e ricostruita come avveniva nell'Italia del secondo dopoguerra.
Allora il problema non è solo leggere o non leggere, ma cosa si legge e con quale intensità di lettura si legge. Perché l'intensità di lettura si collega non solo ad una certa abilità nel leggere (della serie: legge meglio chi sa più parole), ma anche ad una evidente motivazione che sorregge la lettura.
Perché è chiaro che legge meglio chi sente che la lettura è uno strumento di emancipazione, di crescita in primo luogo personale e poi, meglio ancora, collettiva. Legge meglio chi crede che questa sia un’azione indispensabile per diventare adulti. Legge meglio chi cerca e alla fine trova i libri migliori. Quelli che aprono la mente e magari ti mettono in crisi, ti costringono a riflettere, se necessario cambiare opinione su un certo argomento. Legge meglio chi si confronta seriamente con il mondo dei leggenti e costruisce relazioni positive non solo coi propri amici di facebook, ma con le diverse comunità fisiche che uno frequenta (o che dovrebbe frequentare). Legge meglio chi riesce, attraverso libri e parole, a darsi e a dare agli altri una spiegazione più complessa della propria rabbia e delle proprie frustrazioni, personali e collettive.
Non lo so se nelle fabbriche i sindacati dovrebbero tentare di aprire dei circoli di lettura e ripartire dai libri. E sicuramente sa di nostalgia pensare di ricostruire un protagonismo operaio come accadde nel ‘900. Ma penso di poter dire che qualunque protagonismo positivo, personale e collettivo che sia, deve nutrirsi di buoni libri e di letture. E di tempo. Ma di tempo gli sconfitti ce n’hanno. Devono solo decidere come impiegarlo al meglio. Per questo non ci sarebbe niente di male nel proporre ad un eventuale circolo operaio di leggere e commentare testi come “Il maiale ed il grattacielo” di Marco D'Eramo, piuttosto che “L'uomo flessibile” di Richard Sennett o magari, un po' provocatoriamente, di ripartire dall'infinita tristezza (ma ero tentato di scrivere “inconsolabile sconfitta esistenziale e civile”) delle “Operette Morali” di Giacomo Leopardi: tutti casualmente editi, nelle edizioni che possiedo io, da Feltrinelli. Volendo strafare, il sindacato potrebbe proporre ad un circolo di lettura di scaricare da internet le 300 pagine dell’ultimo bilancio consolidato della Piaggio & C. e provare a decodificarlo. Io l’ho fatto in parte e devo dire che anche se non è emozionante come leggere “Q” di Luther Blisset (alias Wu Ming…), è avvincente, si gira il mondo ed insegna un sacco di cose: almeno per quello che ci ho capito.
E poi mi piacerebbe che i partiti che si dicono attenti alle tematiche del “lavoro” si misurassero con la domanda che apre questo blog: ma cosa diavolo leggono gli operai? E quello che leggono ha qualcosa a che fare con questa maledetta crisi? Perché non di solo Jobs Act vive l'uomo. Magari provare a leggere qualche libro interessante e discuterne insieme potrebbe un modo se non per tirarci fuori dalla crisi, almeno per cominciare a capirla meglio, a soffrire con maggiore consapevolezza, a progettare qualcosa anche dal basso e piano piano forse emergere da questa palude. Certo, sempre che sia possibile!
Roberto Cerri