Il giallo e il noir in Toscana.
di Pierantonio Pardi - lunedì 21 agosto 2023 ore 08:00
Interrompo per un po’ la serie delle triadi di “Incipit” per occuparmi di un altro genere narrativo, rimanendo comunque sempre in area toscana.
E’ ormai da molto tempo che i generi giallo e noir costituiscono il mainstream nella narrativa straniera e italiana.
In Italia abbiamo una folta schiera di giallisti, da Antonio Manzini e Maurizio De Giovanni, trasposti poi in tivù con i loro commissari, Schiavone per Manzini e Ricciardi per De Giovanni e Massimo Carlotto con la serie dedicata alle inchieste di Marco Buratti, alias l’alligatore e il discorso potrebbe continuare con Donato Carrisi e ovviamente Andrea Camilleri con il suo Montalbano, ma rimanendo in ambito toscano, ho scelto, per iniziare, tre autori particolarmente significativi: Marco Vichi, Marco Malvaldi e Giampaolo Simi a cui poi affiancherò giallisti meno conosciuti, ma altrettanto interessanti. In realtà, di giallisti la Toscana ne ha sfornati parecchi e penso a Leonardo Gori e al suo commissario Bruno Arcieri, al fiorentino Francesco Recami, ad Antonio Fusco, nato a Napoli, ma da sempre abitante a Pistoia che con il noir “Ogni giorno ha il suo male” introduce il commissario Tommaso Casabona, fino ad arrivare a Nino Filastò, assurto alle cronache per essere stato il difensore di Mario Vanni, compagno di merende del famigerato Pacciani.
Ma cerchiamo, prima di tutto, di chiarire quali sono le differenze tra il giallo e il noir.
Nel giallo investigativo classico c’è un detective (Poirot, Miss Marple, Maigret, Sherlock Holmes, Nero Wolfe) che risolve un crimine usando la speculazione intellettuale, un metodo scientifico, l’analisi, la deduzione e spesso il giallo inizia a crimine già compiuto; nel Noir, invece, quello che conta è l’ambientazione estrema (periferie emarginate, metropoli decadenti e fatiscenti, sobborghi malfamati (la Marsiglia di Izzo o la Los Angeles di Ellroy). Il protagonista è spesso un ex poliziotto alcolizzato o un detective che si muove ai margini della legge (si pensi ai duri dell’hard boyled). Viene approfondito maggiormente l’aspetto psicologico dei personaggi, c’è molta violenza e anche il ritmo della scrittura è veloce e sincopato con una netta prevalenza della paratassi e dei dialoghi.
Marco Vichi è un po’ in bilico tra questi due generi, anche se nel fondo di copertina dei suoi romanzi pubblicati da Guanda, spicca la scritta “noir”. Ma lui stesso, in molte interviste, rifiuta certe catalogazioni stereotipate, affermando che i suoi modelli sono i romanzieri russi di fine ‘800, in particolare Dostoevskij. E c’è da aggiungere che dobbiamo a Vichi la riscoperta di una grande autrice come Alba De Cespédes.
Ma l’intuizione vincente e originale che pone, a mio avviso, Vichi come il più interessante (e più venduto) tra i giallisti toscani e non solo, è l’invenzione del commissario Franco Bordelli che si muove nella Firenze degli anni’60, che ha subito una devastante alluvione e sta lentamente ritornando alla normalità.
MARCO VICHI – La forza del destino
Ed è proprio nella primavera del 1967, anno dell’alluvione, che è ambientato il romanzo “La forza del destino” di cui parlerò in queste pagine.
Mentre Firenze inizia lentamente a riprendersi, per Bordelli non c’è pace; è tormentato da un fatto che gli è successo, indagando sullo stupro con omicidio di un ragazzino, Giacomo Pellissari ad opera di quattro adulti, in un seminterrato. Ed è proprio indagando su questo omicidio che Bordelli si è scontrato con i poteri occulti della massoneria ed è stato costretto alla resa con un “messaggio” molto chiaro: lo stupro di Eleonora, la giovane commessa con cui aveva intrecciato una relazione appassionata. Sconfitto e amareggiato, Bordelli si è dimesso dalla polizia e ha lasciato l’appartamento di San Frediano per trasferirsi in una grande casa colonica nella zona del borgo di Impruneta, nel Chianti, a pochi chilometri da Firenze. E’ assillato da un dubbio atroce: continuare a fare il poliziotto sapendo che non avrebbe mai messo in galera gli assassini, in quanto appartenenti alla casta degli intoccabili oppure, visto che sa chi sono e dove trovarli, farsi giustizia da solo. La soluzione la troverà, proprio grazie al destino che gliela porge su un piatto d’argento, ma io non ve la svelerò. Vi fornirò comunque un piccolo indizio che Vichi, con l’uso dell’indiretto libero, mette in bocca a Bordelli: “ Il mondo era uno schifo, e pensare di guarirlo era un’illusione. Quello che si poteva fare era ricucire i piccoli strappi, anche se l’intero tessuto era marcio. Era solo un modo per non rassegnarsi alla sconfitta, per non soccombere, per non lasciare la regola senza eccezione. Una volta tanto gli intoccabili avrebbero pagato per le loro colpe, fino alle estreme conseguenze. Chi gioca con la vita, anche se non lo sa mette in palio anche la propria … Sorrise, immaginando di essere Davide con la fionda in mano. Aveva colpito il gigante Golia in mezzo alla fronte e lo aveva visto crollare a terra. Adesso doveva soltanto affondargli la spada nel cuore. Toccava a lui, a monsignor Sercambi. Era lui il cuore di Golia.”
Sercambi è il quarto degli intoccabili che hanno stuprato e ucciso il ragazzino e si capisce che la sua sorte è segnata. Ma gli altri tre? Saranno sfuggiti alla vendetta di Bordelli? Questo non ve lo posso dire, ma …
Nel frattempo Bordelli trascorre le giornate cucinando, facendo lunghe passeggiate nei boschi e, grazie ai consigli dell’amico Ennio Botta, imparando a far crescere le verdure nell’orto. C’è poi stato un incontro fortuito ed eccezionale: quello con un enorme cane bianco che una bel giorno si è presentato alla porta della sua casa, apparso come un fantasma dal nulla, e che lui chiamerà Blisk, come il suo vecchio cane, l’enorme cane lupo nazista che si era portato a casa alla fine della guerra, dopo averlo curato da una brutta ferita. Sì, perché Franco Bordelli ha fatto la seconda guerra mondiale come comandante del Battaglione San Marco: Ma sentiamo cosa ci dice Vichi del suo personaggio, in questa intervista online:
Il commissario Bordelli, il poliziotto protagonista di alcuni tuoi romanzi, ha un senso della giustizia molto profondo. Ma a volte il suo senso della giustizia prescinde sia dalla morale comune, sia dalla legge...
In effetti ha un senso della giustizia tutto suo, che spesso non è in linea con la impersonale Legge dello stato.
Bordelli non sbatterebbe mai in galera chi ruba per mangiare, e quando a essere ucciso è un sopraffattore si trova quasi a parteggiare per l’assassino.
Ci racconti qualcosa del commissario Bordelli?
Il commissario Bordelli esiste, è un mio vicino di casa… e ogni tanto mi concede l’onore di raccontare una delle sue avventure.
In “Perché dollari?” (Guanda, 2005) vi è un racconto, “Reparto Macelleria”, in cui dai uno scorcio delle atrocità vissute nel nazifascismo. Inoltre, nei romanzi a lui dedicati, chiarisci che Bordelli è un comandante del Battaglione San Marco (della parte badogliana, perché esisteva anche un San Marco repubblichino ) e, per alcuni romanzi, si può parlare anche di genere noir-storico. Cosa pensi dell’utilità della storia nella vita? Secondo te vi è una tendenza generalizzata all’oblio?
Mio padre, che era nel San Marco e i cui ricordi di guerra ho travasato pari pari nella memoria del commissario, mi diceva sempre che l’Italia si sarebbe ricordata dei partigiani e degli alleati, ma non delle forze militari regolari che combatterono contro il nazifascismo. E in effetti, chi legge i romanzi di Bordelli continua a chiamarlo partigiano, ignorando le informazioni sulla sua appartenenza al San Marco (corpo speciale della Marina Militare).
Più in generale, penso che la dimenticanza sia una tendenza naturale dell’uomo, che in più di un’occasione viene “aiutata” con coscienza. Sono errori politici che spesso posson fare gravi danni.
Hai scritto numerosi romanzi e sceneggiature. Quale ti è costato più fatica, emotivamente parlando?
Per me scrivere non è mai una fatica, anzi… per fortuna è un grande divertimento.
Molte delle tue ambientazioni sono toscane (Chianti, Firenze, etc). Qual è lo shining della tua terra?
Credo che in fondo sia una questione di familiarità. È meglio ambientare le storie in luoghi che si conoscono bene, per poterli usare senza essere didascalici e senza cadere nella “cartolina.
La forza e l’originalità di Bordelli sta nella sua quotidianità, nei rituali che accompagnano le sue giornate. Un appuntamento fisso, una volta al mese, è dato dalle cene con la combriccola degli amici, “la confraternita del Chianti”, titolo preso pari pari da un romanzo di John Fante per cui Vichi ha curato nel 2003 un libretto di “omaggi” per Fazi editore, allegato a un documentario sullo stesso scrittore. Ma chi sono questi amici?
Piras, il vice commissario sardo, Diotivede, il medico legale, Dante, l’inventore stravagante, sempre avvolto dal fumo del suo inseparabile sigaro toscano, Ennio Botta, ladro, contrabbandiere e truffatore, ma sempre a danno dei ricchi (così si autodefinisce in “Nulla si distrugge”, l’ultimo romanzo di Vichi), Bruno Arcieri, capitano dei carabinieri, protagonista, tra l’altro, dei romanzi di Leonardo Gori, altro giallista toscano. Tra l’altro il Botta e Arcieri sono anche i cuochi di queste cene.
Ma la caratteristica di queste cene sta nel fatto che, una volta terminato di mangiare, ogni commensale è chiamato a raccontare una storia in una sorta di parodia del Decameron e delle novelle che si raccontavano alle veglie davanti al camino acceso.
Ma in questo romanzo Bordelli dovrà risolvere anche un cold case: davanti alla sua colonica, anche se situato su una collina, c’è infatti un castello dove abita la contessa Gori Roversi. E sarà proprio lei che, un giorno, si presenterà a casa di Bordelli incaricandolo di scoprire l’assassino di suo figlio Orlando, morto venti anni prima ed archiviato dalla polizia come suicidio. La contessa è convinta invece che il figlio, giovane e brillante avvocato, sia stato ucciso.
Bordelli inizierà l’indagine, in forma strettamente privata e scoprirà che i sospetti della contessa sono più che giustificati. Orlando era stato ucciso da uno dei due avvocati presso cui lavorava perché aveva scoperto una truffa colossale messa in atto dai due e voleva denunciarli. Ma Bordelli non ha le prove materiali, visto che i due responsabili non ci sono più (uno è morto e l’altro vive all’estero da molti anni) e quindi, anche se a malincuore, confermerà alla contessa la tesi del suicidio.
Ma, oltre all’amarezza per questa storia, Bordelli è triste anche per la separazione da Eleonora; tristezza mitigata dall’incontro con una sua vecchia fiamma, Adele, con cui intreccerà una breve, ma intensa relazione e infine i suoi siparietti con Rosa, l’amica maitresse, ex tenutaria di un bordello (Bordelli/Bordello nomen omen?) e le cene in trattoria dove, mangiando rigorosamente e solo in cucina, ascolta le storie macabre e surreali del cuoco Totò.
Insomma, un personaggio, questo Bordelli a cui è impossibile non affezionarsi in virtù della sua umanità, della sua simpatia e di tutte le umane contraddizioni che si porta dentro e che si racconta in una sorta di monologo interiore ininterrotto che Vichi, traducendolo narrativamente con l’uso del discorso indiretto libero mette in comunicazione diretta con il lettore.
DINO FIUMALBI - Le Donne, il Diavolo e il Destino
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Abbiamo visto, analizzando il romanzo di Vichi, come il personaggio, in quel caso Bordelli, susciti l’interesse del lettore e questo succede anche per il Montalbano di Camilleri, per Rocco Schiavone di Manzini, per il commissario Ricciardi di De Giovanni , per il Marco Buratti, alias l’alligatore, di Massimo Carlotto e per l’ispettore De Luca di Carlo Lucarelli, tutti personaggi che poi dalle pagine sono emigrati sugli schermi tivù, diventando seriali; tralascio qui i vecchietti del bar Lume di Malvaldi che non mi hanno mai appassionato.
Ma cosa succede, quando protagonisti di storie gialle sono non uno, ma tre personaggi e tutte donne. E’ un pasticcio in cui si è cacciato volontariamente Dino Fiumalbi, scrittore raffinato e originale, autore del romanzo “La neve e il Vermentino” (Carmignani, 2015) e dei racconti “Noi umani cerchiamo quadrature” (Bandecchi & Vivaldi).
Per farla breve, darò direttamente la parola a lui:
“ E Dio vi salvi, se vi venisse in mente di creare prevalentemente personaggi femminili, magari donne interessanti alle quali avete fatto vivere avventure o storie di un certo rilievo, mettendole sotto i riflettori dalla prima all’ultima pagina. Se la donna – personaggio fosse unica, poco male basterebbe collocarla sempre al centro tavola di ogni storia e sareste salvi. Ma se per sventura avete avuto l’idea di crearne più di una, non ci sarà salvazione! Finirà la vostra pace e lo scrivere, più che un volo nell’immaginazione, diventerà un esercizio di composizione col bilancino da farmacista.”
Ebbene Fiumalbi,, con una buona dose di masochismo, ha messo in scena tre donne o tre dee, come le chiama lui: la ficcanaso Riccarda, la Marchesa Adelaide e l’ispettrice Matilde. Ma il Fiumalbi, consapevole di essere in netta minoranza, ecco che si sceglie degli alleati e a questo punto do di nuovo la parola a lui:
“ A quel punto sono stato costretto a cercarmi degli alleati e ne ho scelti due di gran calibro e, ovviamente, non femmine. In realtà si potrebbe obiettare che intorno ai soggetti, di cui dirò fra poco, non è mai stata sviluppata una seria indagine sulla appartenenza di genere. Diciamo che, almeno nominalmente, sono sempre stati connotati al maschile, nelle narrazioni verbali e scritte. Ho chiamato in causa nientepopòdimenoche il Diavolo e il Destino. All’inizio nessuno dei due ha chiesto compensi (come invece accadde al povero dottor Faust), ma quando sono andato a metter nero su bianco i termini dell’accordo, hanno entrambi svelato le pretese per le loro mercedi. No, no tranquilli, niente anima, dato che probabilmente questa è già ampiamente ipotecata; hanno voluto l’unica cosa pretendibile da uno scrittore, ovvero il loro inserimento diretto nella narrazione. Hanno tirato a sorte, barando ovviamente entrambi, per giocarsi il primo e l’ultimo posto e hanno preteso di lasciare le rispettive impronte anche nelle storie altrui (…) Non vi anticipo certo cosa è accaduto, lo scoprirete da soli gustandovi i tre atti in sette quadri di questa OPERA AL GIALLO, compresi il preludio, l’intermezzo e il gran finale.”
Nel prologo “Il Diavolo recupera un credito” non troviamo come protagonista il mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle, ma un gigantesco cane maremmano bianco che ringhiando minaccioso contro due soldati tedeschi che volevano minare il ponte della Maddalena, altrimenti detto ponte del Diavolo, in località Borgo a Mozzano, il 26 settembre 1944, li mette in fuga, salvando il ponte. Lo ritroviamo poi lo stesso cane 66 anni dopo, sempre su quel ponte, in occasione dei festeggiamenti di Halloween con centinaia di persone travestite che accorrono per attraversare il ponte della Maddalena durante i due o tre giorni di baldoria. Ma il cane, quel cane altri non è che il Diavolo che è tornato lì, per riscuotere un credito. Infatti il ponte fu costruito in una notte, grazie al suo aiuto; lui in cambio aveva preteso un’anima, quella di chi per primo avesse attraversato il ponte, ma un furbo capomastro, consigliato dal prete, fece attraversare il ponte da un cane e così il Demonio si gettò sul cane, gli strappò l’anima e volò via. Si dice però che nelle sere d’autunno egli compaia ancora sul ponte in forma di cane bianco, vagando rabbiosamente in cerca del capomastro, contro il quale ha promesso eterna vendetta.
E sarà proprio Riccarda insieme a Baldo, il suo lagotto complice di avventure, ad incontrare il cane, a seguirlo e a trovare, nascosto tra i cespugli, il cadavere, guarda caso, di un capomastro a cui hanno sparato alla testa.
In “Noblesse oblige”(Atto primo) altro racconto, entra in scena la marchesa Adelaide, che, con un intuito degno di Miss Marple, scoprirà gli assassini del conte Guidobaldo, ricco aristocratico, con la passione per i gigolò, mentre in “Senza pane, è da signori”, durante una cena in cui c’è una sfida tra la cucina toscana e quella francese, Cornelio, marito di Gaudenzia muore mangiando le chiocciole. Sarà Adelaide a scoprire che ad avvelenarlo è stata la moglie.
Ma, a proposito di questo racconto, voglio fare una riflessione sullo stile narrativo di Fiumalbi che, emulando i grandi naturalisti francesi da Stendhal a Flaubert ricostruisce nei minimi dettagli con un lessico specifico i particolari di certe descrizioni e ve ne porto un esempio: “ Il bello venne quando arrivarono le escargots. Non si accede con animo improvvisato e superbo all’estrazione del guscio della chiocciola, del suo prelibato frutto di mare. Occorre perizia e abilità da fiorettista nel manovrare lo stuzzicadenti, stecchino per i pisani, al fine di svellere integro il corpo del mollusco rintanato nel profondo pertugio della conchiglia spiralata a “difesa ultima vana” contro l’oltraggio masticatorio. L’angolo di inserimento del piccolo giavellotto non si può improvvisare. Il suo valore deve essere pressoché perfetto, al fine di evitare lacerazioni e perdita definitiva dell’agognato boccone. L’asticella deve sfiorare l’intersezione fra la parte terminale dell’ultimo accrescimento calcareo e il resto della coclea. Solo così si riesce a estrarre tutto il mollusco. Occorre inoltre sapienza per suggere dall’involucro, con velata sonorità di sottofondo, l’umore di cottura, ambrosia apprezzata solo dai palati all’uopo educati. Ma in una cena come quella, usare lo stuzzicadenti e succhiare i gusci sarebbe stato come presentarsi con le infradito in udienza dal Papa. Tutti i commensali presero quindi a manovrare l’apposita pinza e la forchettina a due rebbi, per estrarre i bocconcini.”
In questo brano c’è la sintesi di tre elementi, la descrizione accurata che è tipica dei naturalisti, l’insistenza quasi paranoica sui particolari anche più insignificanti che ci trasporta in area barocca e infine l’ironia di fondo che dona leggerezza al tutto. Le parole in Fiumalbi sono importanti e lui, con gusto filologico, usa sempre i termini esatti, senza però cadere mai nella pedanteria, perché ogni volta aggiunge una nota ironica se non sarcastica alle sue dotte “precisazioni”.
Nell’atto secondo, col racconto “Codice per un delitto” infine entra in scena la sovrintendente Matilde, che, insieme al suo assistente Antonio Laganà si ritrova in un paesino delle Alpi apuane dove viene ucciso, assalito da uno sciame di api, Gigi Rizzo, un aitante professore di educazione fisica, allergico alle punture di quegli insetti. Matilde scoprirà in poco tempo l’assassino, ma io non vi rivelerò come, altrimenti …
Nel secondo racconto “Varmint”, Paul Beretta, skipper palestrato al servizio di una coppia di ricchi (marito vecchio e moglie giovane come da copione) viene ucciso mentre sta facendo footing sulla spiaggia. Anche in questo caso Matilde scoprirà l’assassino.
Trattandosi di racconti gialli è ovvio che devo muovermi come su un campo minato, cercando di non svelare gli indizi che priverebbero il lettore della sorpresa e/o del colpo di scena, che in questi racconti non manca.
Abbiamo prima parlato del Diavolo, ma ecco che, alla fine, un po’ come è successo nel noir di Vichi, entra in scena anche il Destino. Come?
Matilde e Adelaide si incontrano/scontrano per caso su una strada di Volterra, a causa di un reciproco tamponamento ed iniziano a litigare. Assiste alla lite Paris, uno studente di storia dell’arte. Paris, ovvero Paride, e qui al Diavolo e al Destino si unisce anche un po’ di Mito, anche se il Paris di Fiumalbi non dovrà scegliere per sua fortuna la dea a cui donare il pomo.
Matilde che deve prendere servizio a Volterra, come vice commissario, alloggia nel B&B di cui è proprietaria Adelaide. Così le due donne familiarizzano e partecipano alla festa medievale di Volterra, dove Matilde si travestirà da arciere e dove verrà uccisa una donna Cally, ferita da una freccia avvelenata. Ma, anche in questo caso, gli assassini (questa volta sono due) verranno smascherati.
Vorrei concludere, dando di nuovo la parola a Fiumalbi che così scrive nella quarta di copertina:
“ Le storie vissute dai personaggi di questo libro nascono separate, ma non indifferenti fra loro. Nei racconti già pubblicati si trovano i sintomi degli sviluppi, si inciampa in piccoli indizi che ammiccano alle convergenze e alle intersezioni che ogni storia pare ricercare con le altre. Si ha l’impressione che ogni personaggio, pur non rinuncando a rimanere se stesso, cerchi di intrecciare le sue vicende in un tessuto di più ampio respiro. Ho provato a dare voce a queste ambizioni giocando su una narrazione strutturalmente simile a una pittura impressionista: vista da lontano, dà l’idea di gradazioni omogenee, ma osservata da vicino, rivela i singoli colori diversi fra loro. In questo senso le voci soliste del prologo e dei primi due atti confluiscono nella partitura corale del terzo atto, con il racconto più lungo, in cui tutti i protagonisti si ritrovano in Volterra. Chiude quest’opera al giallo un gran finale che vi sorprenderà.”
Pierantonio Pardi