Il viareggino che amava i matti
di Pierantonio Pardi - mercoledì 09 novembre 2022 ore 20:00
In un’intervista rilasciata a Giacovazzi per la rubrica TG incontri nel 1974 , Mario Tobino disse: « Ho vissuto trentacinque anni con i matti; ora, siccome si dice che, vivendo con loro, ogni cinque anni si acquista un grammo di follia, io ne avrei già accumulati sette, quindi, se dico qualche scemenza devo essere perdonato.»
Mario Tobino (Viareggio, 1916 - Agrigento 1991) si laurea in medicina nel 1936 ed esordisce in narrativa con il romanzo “Il figlio del farmacista” del 1942 e i racconti di “La gelosia del marinaio”. Dopo la sua esperienza in Libia, durante la seconda guerra mondiale scrive due romanzi: “Il deserto della Libia” e “Il perduto amore”. Dal primo nasceranno due adattamenti cinematografici, “Scemo di guerra” di Dino Risi e “Le rose del deserto” di Mario Monicelli. Nel 1962 vince il premio Strega con “Il Clandestino” (ispirato alla partecipazione di Tobino alla Resistenza) e nel 1972 il Campiello con i racconti di “Per le antiche scale”
Pubblica il suo ultimo romanzo “Il manicomio di Pechino” nel 1990 e muore un anno dopo ad Agrigento, dove è andato a ritirare il premio Luigi Pirandello.
Eppure, nonostante tutti questi riconoscimenti, Mario Tobino non è molto conosciuto e la sua fama è legata soprattutto ai romanzi attinenti all’area del manicomio, “Le libere donne di Magliano” (1953), “Per le antiche scale” (1971) con il quale vince il Campiello e del quale Mauro Bolognini realizza la versione cinematografica e “Gli ultimi giorni di Magliano” (1982). In questi romanzi Tobino ha sintetizzato i tre passaggi fondamentali che hanno caratterizzato la Psichiatria nel Novecento, dalla chiusura coatta nei manicomi dove spesso ci finiva anche chi matto non era (con tanto di elettroshock) alla fase farmacologica quando vengono somministrati e scoperti i primi farmaci fino a quella antipsichiatrica ( legge Basaglia n. 180, 13 maggio 1978) con la chiusura dei manicomi.
Nelle “Libere donne di Magliano” Tobino tiene un diario giornaliero della sua vita in manicomio, rivelando quasi una sorta di affetto verso quel microcosmo fatto di disperazione e di misteriosa e sconosciuta umanità; lui di fatto vive lì, confortato dalla lettura dei classici, da Dante ( su cui scrive uno dei suoi libri più famosi “Biondo era e bello”) a Boccaccio fino a Machiavelli. Tobino fu molto polemico con i pionieri dell’antipsichiatria italiana ed espresse le sue opinioni in vari articoli comparsi sul “Resto del Carlino”. Ecco cosa scrisse in un suo articolo: “ … accade che un uomo infuriato entra in manicomio e con poche pasticche, già al secondo e terzo giorno si placa, fa come un tizzone immerso nell’acqua, che frigge e fuma, ma non più sfavilla l’incendio. E può accadere – non sempre, con discreta frequenza – che spesso si ricostituisce, si stabilizza, torna ritto in piedi ed esce come un uomo dal cancello dell’ospedale. Questo è uno dei più fortunati, che ha incontrato il suo preciso psicofarmaco. Ma altri, tanti altri, sulla soglia del manicomio, sembrano già guariti e non lo sono. Per questi il medico non imbroccò, ancora è tutto empirico. Gli psicofarmaci ebbero il potere di rompere le nebbie, non di purificare tutto (…) io in qualche giorno anche recente ho sentito gravare sull’ospedale un silenzio sospeso, come di vana attesa, come si fosse riusciti a portare i malati sulla soglia della nostra libertà, ma poi era tutto inutile, non si riusciva a portarli al di là, dar loro le ali, far battere tranquillo e sicuro il corso del loro pensiero.”
Con una prosa lirica che alterna a immagini idilliache altre violente e realistiche dove il contrasto tra il mondo dentro e quello fuori dal manicomio diventa drammaticamente incompatibile, Tobino ne “Le libere donne di Magliano” delinea una serie di ritratti dove il delirio femminile appare e scompare in quelle figure quasi fantasmatiche che spesso sono finite lì solo per troppo amore, un po’ come accadde alla Ofelia shakespeariana. E con la sua prosa Tobino prova a penetrare quel mondo disgregato e incoerente e a farcelo conoscere, rimanendo però dell’idea che i manicomi non andavano chiusi, ma profondamente modificati.
Ma, in questa sede, voglio presentare un libro che esula dalle tematiche manicomiali e ci mostra un Tobino inedito, forse poco conosciuto, il Tobino che racconta la sua Viareggio. Sono i racconti di “Sulla spiaggia e di là dal molo” (1966)
Il libro, come ben sintetizza Eraldo Affinati nella prefazione, è diviso in quattro parti: nella prima “Bastimenti e marinai” si risale alle origini storiche delle famiglie riunite, già dal dodicesimo secolo, intorno ai canali della costa tirrenica; erano piccole comunità dedite alla pesca e alla coltivazione degli orti, insomma marinai e contadini. La seconda sezione “La politica” racconta la famosa rivolta del 2 maggio 1920, dopo una partita di calcio tra la squadra locale e la Lucchese, nel momento in cui il popolo, sconvolto dalla morte di un giovane tifoso ucciso da un appuntato dei carabinieri, si ribellò erigendo per tre giorni le barricate. La terza parte “Al di qua del canale” è una sintesi di ricordi infantili, quando la città venne cementificata dal regime fascista, pur restando insofferente e ribelle di fronte alla dittatura, anche grazie al genio di Ettore Petrolini che, al teatro Eden, ridicolizzava il Duce senza farsi scoprire. La parte finale “Tempi moderni” ci presenta Viareggio negli anni ’60, con gli yachts e i cruisers dei nuovi ricchi impegnati nelle regate tirreniche; è la città che qualche anno prima Dino Risi aveva descritto nel film “Una vita difficile”. Sempre in tema di film, c’è da dire che anche da “Sulla spiaggia e al di là dal molo” è stato tratto un film con la regia di Giovanni Fago nel 1999.
Il vero pezzo forte di questo libro è il racconto delle tre giornate di rivolta; è una rivoluzione di calafati, sarti, operai, spalleggiati da donne, vecchi e bambini, narrate con un ritmo incalzante: “ Fu il vino che aumentò l’energia, stabilizzò l’ardimento e, per un altro verso, fece indugiare, procrastinare; donò una gioia, che poi fu pagata. Il vino li fece viareggini assoluti, fuori dalla storia, anarchici, figli di quei quattrocento, i primi di Viareggio, gli antenati che per sei secoli vissero liberi con i pochi pesci pescati e l’insalata dell’orto” (pg. 80)
Tobino scrisse che il suo desiderio, con questo libro, era quello di ricordare una Viareggio scomparsa a coloro che oggi hanno il sorriso della gioventù.
E infatti ecco che ci fa conoscere Giacomo Puccini, Paolina Bonaparte, Lorenzo Viani, ci porta per mano a vedere i mitici bagni , primo tra tutti, il Balena, il Colombo, il bagno dei preti, il Nettuno, il bagno dei ricchi, le rotonde, l’Eolo, il gran caffè Margherita, il Principe di Piemonte.
E poi, quello che ancora oggi è il cuore di Viareggio, un viale una volta chiamato Margherita – oggi della Libertà – detto popolarmente “La Passeggiata”. Inizia dalle spallette del molo e arriva, percorrendo più di due chilometri paralleli al mare, fino alla Fossa dell’Abate. Tobino descrive com’era la Passeggiata prima del 1930/35 prima che il duca Salviati, il fascista podestà di Viareggio, la trasformasse. La Passeggiata era composta da costruzioni tutte di legno, quasi baracche, alte pochi metri e ognuna era il ritratto di chi l’aveva ideata; c’era libertà anche per i colori, bianco, rosso, rosa, grigio.
Ma vorrei concludere dando di nuovo la parola a Tobino che, in questo passo, ci offre una saggio della sua scrittura: “ Se uno a quel tempo, montava sulla spalletta del molo e di lì si metteva a mirare tutto lungo il viale, vedeva in fuga il disegno del teatro Eden, i leggeri pennacoli del Margherita, le grosse bandiere dell’Eolo, lo scabro grigio del bagno Cirillo, correva sui tetti di paglia del Tognetti, le rosse baracche dei fratelli Domenici lo chiamavano, le costruzioni più piccole facevano enormi i Gran Caffè, per il viale le persone vestite di bianco apparivano giovani e felici, i colori si alternavano, si univano, si muovevano così come nel cielo facevano le bandiere e i pavesi” (pg.112)
Tobino è riuscito, con questi racconti, a tradurre in romanzo la storia di un luogo.
Pierantonio Pardi