L'errore
di Nicola Belcari - martedì 08 giugno 2021 ore 09:22
Lo sbaglio del nome su una targa commemorativa scatena la facile (e pelosa?) ironia del commentatore (“bendisposto”… a infierire, fregandosi le mani) che l’addita al pubblico ludibrio. Ecco vedete l’ignoranza!
Eppure non è così. Il nome avrebbe potuto essere anche quello errato e l’ignoranza è della conoscenza del personaggio non della lingua, un errore di superficialità non di grammatica.
L’errore è grave perché contraddice l’intento dell’operazione.
Annebbiato dall’ostilità, il commentatore vuole coinvolgere più persone senza rendersi conto che così avvalora la tesi del “complotto”: tra i tanti, alcuni si saranno accorti e hanno lasciato sbagliare qualcun altro. Rivalità e ripicche tra impiegati? Per un nome poco diffuso sarebbe bastato un clic sul computer per evitare la gaffe (la cultura e l’ignoranza sarebbero rimaste le stesse). Curioso, infine, che avvedutisi dell’errore si copra la scritta con un telo trasparente quel tanto che basta per poterla decifrare.
Ciò accade a Roma, la città di Pasquino, di G. Belli, di Trilussa… e di Caligola. Là gli autobus non si fermano semplicemente come da tutte le altre parti, là prendono fuoco… come le giraffe nella pittura surrealista di Dalì.
I nemici furbi dell’amministrazione capitolina non insistono sull’errore perché sanno come la pensa il “popolino”.
Al povero vecchio, suo tipico rappresentante, piace pensare sia una legittima indifferenza (“divina indifferenza” o “dotta ignoranza”) non conoscere un nome per chi non aveva il compito di scriverlo, o farlo scrivere, su una targa. Il suo è un “pensare” sconveniente, scandaloso. Benché lui, anche in ciabatte e dal divano, non avrebbe mai sbagliato essendo esperto di parole incrociate (per via del numero di lettere).
Gli piace pensare a una vendetta del caso, a una riuscita pasquinata, sospettoso dello scopo, di tanta risonanza e pomposa ufficialità, dato a certe iniziative.
Uno sbaglio voluto per un boicottaggio o frutto dell’ignoranza dilagante? Sono versioni prive d’interesse per il vecchio dalle facoltà psico-fisiche indebolite. Il refuso, per lui, “punisce” classi dirigenti che si autocelebrano attraverso alcuni loro esponenti di prestigio, come padri della Patria.
Se alcuni politici hanno umili origini e carriere a volte fortunate o immeritate, il giusto riscatto sociale li unisce ai privilegiati dalla nascita, manager o detentori di alte cariche, espressione di una casta di “figli-di”, di titolati usciti da scuole riservate ed esclusive.
Approfittare del rispetto dovuto a un defunto per glorificare loro stessi, da promotori d’incensamenti interessati ed esponenti dell’establishment, non appassiona. Persino la celebrazione di un martire della causa più santa o di un eroe, che ha sacrificato la vita, può apparire retorica per un popolo sofferente. Quando non si traduce in comportamenti concreti. Ma c’è bisogno di sentirsi comunità, di riconoscere valori comuni e allora questo è il senso.
Non c’è entusiasmo invece per il cursus honorum di alcuni predestinati: che si godano pensioni strabilianti e buon-uscite stratosferiche, senza chiasso.
Il solito vecchio malandato, abbandonato il cruciverba, sembra dire con malinconia: lasciatemi in pace, magari su una solitaria panchina di quella piazza, di cui nemmeno conosco il nome. E, dell’errore, del suo inutile clamore, non m’importa. Né indigna, noi figli di nessuno.
Nicola Belcari