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domenica 27 aprile 2025

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Triage

di Marco Celati - domenica 27 aprile 2025 ore 08:00

È notte, il cuore fibrilla. Chissà perché sempre di notte? È il fine settimana. Chissà perché sempre il fine settimana? Non ha voglia di andare a rompere i coglioni al pronto soccorso dell’Ospedale, probabilmente più intasato nei giorni prefestivi e festivi. Passerà. E invece non passa, anche di giorno il cuore scintilla. E non è la prima volta. Aspetta. Poi lunedì mattina si decide, avvisa i figli, chiama la compagna che lo porta all’Ospedale. C’è una fila da fare. Sono circa le undici quando è ammesso al triage. Sdraiato su un lettino rotabile, con gli elettrodi attaccati addosso per l’E.C.G. di benvenuto. Sì, l’atrio ventricolare fibrilla, quasi come quello del pronto soccorso. Forse un po’ meno, questa volta: è più leggero, ma si sente. E non smette. Ti bucano subito per i prelievi rituali del sangue e ti predispongono per ricevere eventuali flebo di sostegno. Il lettino rotabile dal corridoio guadagna una stanza del triage. È quasi sulla porta, lo spostano ogni volta che entra o esce il lettino di un altro paziente. Un po’ come a casa sua, nel monolocale in affitto, che si spostano le cose per passare. Non si sa quanti pazienti sono. Diversi. Separati da pietose tendine arancioni, a tutela della privacy.

Per la fibrillazione atriale funziona così: ti fanno subito prelievi e analisi di controllo. Poi, per cinque o sei ore, ti lasciano in osservazione sul lettino, a decantare. Ti attaccano ad una macchina che misura battiti, pressione, ossigenazione del sangue e si dimenticano di te. Sei una discreta seccatura, occupi un posto letto e conviene restare pazienti. A volte la macchina suona e vengono a vedere. Premono dei tasti e la chetano. Niente di grave, rassicurano. D’altra parte che devono fare? Al cuor non si comanda e va per conto suo. Cambiano i turni, dottoresse, dottori, infermiere, infermieri, oss, “tutte e tutti” -come va detto oggi- con camici di colori diversi che non si capisce chi è e chi non è. Si salutano e si scambiano le informazioni sui pazienti e sul fine settimana: c’è un femore rotto, una colica, una crisi respiratoria, un cardiopatico, un’incidentata, c’è chi è stato già al mare, approfittando di qualche giorno di sole e chi no. Il figlio che ha la febbre. La partita di calcio. Le ferie. Il sindacato. E così via. Non trascurano il lavoro, anzi. È che ci vuole il tempo che ci vuole e il tempo deve passare e va ingannato. È erratico il tempo, come la vita. Finché una dottoressa, digitando al computer dice, piano ragazzi, non riesco a concentrarmi su cosa scrivo!

Tragedia e commedia convivono in mezzo alla sofferenza, tra gli stipati del triage. Accanto a lui, dietro la tenda, giace un anziano, in uno stato di dormiveglia. Apre gli occhi, ha fame, lo imboccano, gli danno la minestra. È buona la minestra? Gli chiedono. Sì, buona, urla. Ancora? Ancora! Lo riempiono di minestra. Aveva famona o fame-fame, come dicono al Romito. Ogni tanto si rinviene e grida: Carla -chissà chi è Carla- Vieni! Porco…!!! E giù un moccolo all’indirizzo del Padreterno. Al che tutti rispondono: Amen! Oppure gli danno sulla voce. Ma lui replica, imprecando: Cosa? Porca…!!! Altro bestemmione, questa volta al femminile per rispetto dei generi. E via andare così: moccoli e giaculatorie. Poi ricade in un torpore, alternato da improperi. Nel corridoio, qualcuno si segna. Magari bisognava dire al vecchio che non converrebbe sbilanciarsi così, verso la fine del mandato: non si sa mai. Ma chissà se avrebbe capito. Forse Nostro Signore e la Beata Vergine, se esistono e assistono i dolenti senza nome, comprendono e ne rideranno. Sono di spirito, di certo più di noi.

Insomma, passa meglio il tempo quando siamo in compagnia, sennonché il cuore continua a fibrillare. A un certo punto arriva una dottoressa e poi un dottore che gli fanno ripetere per la terza o quarta volta quello che ha già detto agli infermieri di turno. Guardano e rileggono, nella cartella clinica, i documenti alla rinfusa che ha portato con sé. Consultano il computer di bordo. Allora pensano a cosa devono fare. Le analisi vanno bene, ma si preoccupano. Forse una flebo? Niente? No, meglio una flebo di betabloccante, Seloken, magari la fibrillazione rientra da sola.

Col cavolo che rientra. Lo portano in sala shock, gli appiccicano due piastre adesive sul torace e lo collegano ad una macchina elettrica. È un habitué, un’anestesista lo riconosce. Anche lui se la ricorda. Si salutano. Lo sedano e gli danno una scossa. Infatti dice che ci si scuote. Ma non te ne accorgi perché dormi. È un attimo, è più la preparazione. Si chiama cardioversione elettrica. Quando ti svegli è una bella sensazione: ti sembra di aver dormito chissà quanto, ti senti riposato anche su quel lettino angusto ed hai il cuore in pace, perché, dopo la scossa, ha smesso di fare casino. Speriamo che duri. Un’altra oretta di osservazione e te ne andrai a casa con la posologia: svariate pasticche da dosare.

Intanto è arrivata la compagna. L’hanno fatta passare, hanno telefonato dal pronto soccorso al triage. È sollevato a vederla, contento. Le dice, il cellulare è con i vestiti in un sacchetto, appeso sotto il lettino, scusa, non potevo più chiamare. Poi, sgarbato com’è, le fa, però non puoi stare qui, la privacy, ti guardano male, c’è ancora tempo prima di uscire. Lei non aveva alcuna intenzione di restare oltre il lecito e scuote la testa, s’arrabbia e se ne va, lasciandolo come esempio vivente della parabola apocrifa toscana: “A far del bene a’ ciu’i, Gesù se n’ha per male”. Capace la guardavano perché è bella, ma lui di questo riesce meglio a scrivere che a parlare. E pensava, sono quello che scrivo, mia cara, il resto è più una malattia. A meno che la malattia non sia proprio scrivere.

Alla fine medici, infermieri e personale vario, sono stati bravi. La sanità pubblica per tutti è una grande cosa. Lo stato sociale, sanno una sega nel Texas! Forse noi potevamo fare molto meglio con quel pronto soccorso, sala d’aspetto e triage. Gli spazi, voglio dire. Nuovi, e questo va bene, ma troppo stretti. Accidenti! E allora non c’erano nemmeno le spese del riarmo europeo, o della difesa, né dazi o controcazzi.

Sono le ventitré, chiama uno dei figli, che lo venga a prendere, davanti al pronto soccorso. È buio, s’incammina giù per la discesa, lungo la curva della rampa per le ambulanze. Sotto braccio la cartella sempre più gonfia, come il cuore, della sua storia clinica e cardiaca. Pensa, sì, avremmo potuto fare di meglio. Del mondo e nella vita. Guarda il cielo. Resta quel che resta della notte, una luna indolente e poche stelle infingarde.

Pontedera, Aprile 2025

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati