Puntremal - Ultima parte
di Libero Venturi - domenica 20 ottobre 2019 ore 07:15
Terza ed ultima parte
A Pontremoli, e in generale da quelle parti, si mangia molto bene. Cucina casalinga e roba per lo più genuina. Prodotto tipico per eccellenza, i testaroli che qui sono quasi obbligatori, non si possono non mangiare: all’olio, al pesto, accompagnati con i funghi. Sono un primo fatto con farina acqua e sale, cotti entro due grandi teglie circolari, i testi, da cui viene il nome. Risalgono probabilmente alla tradizione culinaria dell’antica Roma e possono considerarsi la prima pastasciutta della storia. E soprattutto sono buoni; quelli fatti in casa hanno un sapore speciale che ricorda gli odori dei boschi di quelle parti. Se li compri alla bottega e capiscono o fai capire che sei del posto oppure vanti parentele locali, è meglio, perché ti servono quelli migliori. Non è per essere campanilisti, è che da sempre il meglio va con i migliori.
Buoni sono anche i panigacci,che vengono fatti con gli stessi ingredienti dei testaroli, ma sono più piccoli: ho letto che, paragonati ai dischi dei miei tempi, i testaroli sarebbero un 33 giri e i panigacci un 45. Sono anche un po’ più liguri e, una volta cotti, vengono impilati interi e conditi. Li farciscono con affettati o stracchino, i più ghiotti addirittura con la Nutella. E non vogliamo parlare della marocca? Un pane contadino, da sempre fatto con quello che c’era: poca farina di grano, molta farina di castagne, un po’ di patate e olio di oliva. Si conserva bene e accompagna altrettanto bene i salumi locali, come il lardo di Colonnata. Anche il miele dop di castagne della Lunigiana: da solo o sul pecorino. Vermentino di Luni e sei arrivato.
Delle torte d’erbi s’è già detto nelle puntate precedenti. Restano i turdei, tortelli con ripieno di bietola e ricotta; per assonanza, c’è anche il “Tour Day”, una manifestazione itinerante di assaggi delle specialità pontremolesi. E infine gli sgabei, appetitose losanghe di pasta lievitata fritta, con un cenno di sale, da mangiare come le ciliegie: una tira l’altra o “bocca bocca, fi’o fi’o” che dir si voglia. Oppure da aprire e imbottire di affettati e formaggi a piacere. Gli sgabei hanno diversi nomi a seconda della località: pinzini, cuculli, gnocchi fritti, morseleti, crescentine. Peggiova nel cuneese dove si chiamano bagasce. Però,comunquesi chiamino, l’effetto è garantito: ti rimpinzi.Eforse è proprio ciò a cui simili pietanze, un tempo povere e oggi sfiziose, erano destinate: riempire la pancia. Con poco provvedere a tanto: ingolosire e sfamare.
Tra gli affettati poi qui hanno un salame a forma di salame e che sembra un salame, ma lo chiamano mortadella. Ciò non ci stupisce perché, se per questo, noi la mortadella si chiama anche melone. Ma in effetti l’insaccato pontremolese non ha il sapore forte del salame, è più amabile. Che sia davvero mortadella? Buonissimo comunque.
I ristoratori di Pontremoli sembrano avere un innato senso degli affari e un altrettanto innato spirito di contraddizione, un po’ anarchico e irriverente. In piena stagione di funghi, reclamizzati in tutte le trattorie del paese, all’ingresso di uno storico ristorante del centro -è lì dal 1930- l’osteria “da Bussé”, campeggiava un cartello con su scritto a grandi lettere: “Qui non si cucinano funghi”. Tanto per evitare discussioni. E, sempre a proposito di “Bussé”, si racconta un aneddoto gustoso. Una coppia, prenotato un tavolo per le tredici e facendo molto caldo -si era in estate- richiesto al titolare il permesso di entrare prima nel ristorante e attendere nell’ingresso, per avere un po’ di refrigerio, si sentì rispondere: «No, scusate, se avete caldo andate in Duomo, qui accanto: così dite una preghiera e c’è bel fresco». Del resto in occasione del Premio Bancarella, che richiama a Pontremoli centinaia e centinaia di visitatori, “Bussé”, che si trova nella piazza adiacente a quella della prestigiosa manifestazione, pensa bene di stare chiuso. Troppa gente, troppa confusione. Che diamine!
Imitato del resto dal Bar Luciano, in Piazza Duomo, che durante il mercato e le principali manifestazioni apre la saracinesca a proprio piacimento e chiude alle ore dei pasti perché si deve pur pranzare e cenare. Insomma non si sa di preciso quando apre e quando chiude. Il titolare spesso siede ai tavolini mescolandosi ai clienti e osservando le proprie lavoranti. Raccontano che non ami parlare molto e si esprima tramite foglietti con su scritto: “sì, no, non lo so”, esibiti all’interlocutore, a seconda della domanda postagli. E pare che tempo fa il biglietto che reclamizzava il locale e la sua specialità riportasse sul retro: non serviamo niente per accompagnare l’aperitivo. Perché ciò di cui va famoso il suddetto bar è proprio l’aperitivo: il mitico “Bianco Oro”, un misterioso cocktail inventato, brevettato addirittura, dal titolare. Vengono da ogni dove per berlo, servito in coppette basse al modico prezzo di due euro. Ricorrendo i quaranta anni dal brevetto c’è stata una festa davanti al bar e il Bianco Oro, servito a dire il vero con delle patatine, è andato a ruba. Il cocktail-aperitivo è brevettato sì, ma non confezionato. Macché! Lo creano all’impronta: una base di spumante, una goccia di un liquore ambrato e una di un liquore color chiaro trasparente, con la classica scorzetta di limone a rifinire il tutto. Avvertenze: nel bar non tengono acqua perché, dice il gestore, occuperebbe spazio. E non vi azzardate a chiedere un caffè, è inutile: la macchina è spenta da sempre. Ad alcuni avventori seduti al tavolo che, dopo una paziente attesa, avevano osato pretendere un espresso, è stato indicato senza tanti complimenti il bar accanto: «loro il caffè lo fanno». Visto io. Eppure tutto ciò fa simpatia ed è accattivante più di mille salamelecchi. Forse per questo i tavolini sono sempre occupati. E poi, vi assicuro: il Bianco Oro è buono davvero. Quando c’è qualità, la quantità non conta, viene da sé.
Il bar accanto è quello storico “degli Svizzeri” che deve il nome alla nazionalità dei fondatori. Insieme agli altri tre bar, in Piazza della Repubblica, completa l’offerta di consumo e intrattenimento pontremolese. Accaparrarsi sedie e tavolini sotto il loggiato degli Svizzeri o in piazza davanti agli altri esercizi, vuol dire passare una piacevole serata gustando caffè, pasticcini o gelato e assistendo agli spettacoli e alle iniziative all’aperto che si svolgono durante la bella stagione.
Del mitico bar Alvaro, quello del “Gelato del Corsaro” e dell’aperitivo “Stordénte” -questo invece confezionato in bottiglia- ho già parlato la volta scorsa. Aggiungerò solo che nei tempi d’oro, prima dell’avvento del gelato confezionato industriale, nella gelateria artigianale del bar, sotto la direzione di Renato, cognato di Alvaro, in estate lavoravano intere famiglie: i pontremolesi hanno forti ed estesi legami di parentela e poi ci sono gli altri. Renato, finito il lavoro, ritornava a casa guidando a trenta all’ora, con il classico braccio penzolone dal finestrino, il furgoncino Fiat carico di “nude”. Non pensate male: nella lingua locale sarebbero le “nipoti”. E Alvaro, con il furgone, portava gelato e panna montata in tutti gli esercizi della zona, fino a La Spezia. Ancora oggi quello del bar Alvaro, che Paolo, figlio di Renato, e i familiari portano avanti, è uno dei migliori gelati da gustare. Il bar è il principale sponsor della “Stranotturna Città di Pontremoli”, marcia di sette kilometri, a corsa o passo, non competitiva, ma chi corre corre davvero. Quest’anno ricorreva anche il 40º. Abbiamo partecipato pure noi, arrivando fra i primi degli ultimi.
Altro punto di ristoro meritevole di menzione e ricco di aneddoti è la trattoria “del Giardino”. Il locale è gestito da una collaudata coppia, marito e moglie piovuti a Pontremoli da altre parti della Toscana, ma ormai parte del pacchetto gastronomico e caratteristico locale. L’insegna sul muro in via Ricci Armani quasi non si vede. In diversi anni di frequentazione non l’avevamo mai notata. Anche perché la trattoria non si affaccia sulla strada, è collocata in fondo ad un andito. Per la verità, nonostante l’effetto annuncio derivante dal nome, il giardino non c’è, o meglio c’è, ma si vede solo dalle finestre della sala che si presenta con diversi tavoli apparecchiati. L’ambiente è confortevole. Il solito Zio sapiente ce ne aveva parlato e ci aveva pure avvertito di qualche stranezza umorale della gestione. Quasi a metterci in guardia. Così, titubanti, di buon mattino siamo andati a prenotare, ma il titolare ci ha detto, perentorio: «Spiacente, non si accettano prenotazioni» e quindi siamo andati alla ventura. Che tuttavia ci ha assistito: tornati all’ora di pranzo e riconosciuti come gli incauti prenotatori mattutini, per giunta forestieri, ci è stato assegnato un bel tavolo, proprio sotto la finestra che dà sul giardino. Mentre stavamo mangiando sono arrivate due signore che hanno chiesto se era possibile pranzare. In effetti c’erano diversi tavoli liberi. Ma il titolare ha detto loro, sempre in tono perentorio: «Spiacente, è tutto prenotato» -che ovviamente non poteva essere vero- e le ha mandate via. Poi ci ha spiegato che sono in due in sala e in cucina, lui e la moglie, e più di tanto non si può fare se si vuole offrire un buon servizio. Ma ci hanno pure fatto capire che prima di tutto viene la vita. In ogni caso possiamo testimoniare che le frittelle di baccalà, specialità della casa, sono ottime e valgono il rischio di affrontare quella imprevedibile sfida esistenziale.
Molti altri e prestigiosi sono i ristoranti, “Ca’ del Moro”, un resort incantevole con piscina vista monti dove abbiamo trascorso un bellissimo tempo. Probabilmente “Ca’ Rossi” dove tutti ci hanno consigliato di andare e non siamo andati. Ma in questo tour parziale e limitato, intendo ricordare solo quelli più cari alla memoria e non troppo alla tasca. E allora impossibile dimenticare “L’osteria della Bietola”, che si pronuncia «d’la Bied’la», nell’omonima via, portato avanti dalla tradizione familiare, nonché “L’antica trattoria Pelliccia”, verso Porta Parma, che monti le scale e sembra di essere in casa, E poi “La taverna dell’Oca Bianca” nella parte bassa del centro storico: di recente ci ha mangiato anche Meryl Streep. Per dire. E anche il bistrot “Rare bontà”, in Piazza Italia, ex piazza Rossa -dove ci sarà crisi, ma se non prenoti t’attacchi- che ci ha fatto esclamare, di un fritto di mare: «Gee che belo!». Simpatica anche una pescheria in via Bologna davanti a cui puoi mangiare su tavolini e sgabelli alti, come in una specie di pub ittico. E l’onesta, popolare pizzeria, “Il Girasole” che ci ha servito pizza e sgabei.
Infine il mio prefe, come dicono i giovani: “Da Norina”, in fondo ad un lungo corridoio, un tavolo a due, su un terrazzino che si affaccia sul Magra. Le recensioni sono contrastanti, ma per una cena romantica non c’è niente di meglio. La tua compagna, la notte di fianco, il fiume che scorre e, se si affaccia la Luna, sei perso. Indimenticabile. Però sono buoni anche i testaroli e l’agnello di Zeri. E indimenticabile, quando è stagione, è pure il castagnaccio.
Non resta che concludere questi diari di viaggio citando la manifestazione più importante che si svolge a Pontremoli, nella centralissima Piazza della Repubblica: il Premio Bancarella. Un premio letterario assegnato dai librai stessi, anche se penso che le case editrici vi avranno pur sempre la loro parte. Il Bancarella è ben noto nel panorama nazionale e non solo. La prima edizione, nel 1953 andò ad Hemingway per “Il vecchio e il mare”. La storia del premio è particolare. Ne parlò anche Oriana Fallaci in un articolo su “Epoca”. In Lunigiana, terra di pastori e contadini non poche erano le persone istruite. L’arte della stampa a caratteri mobili prese piede appena quindici anni dopo l’invenzione di Guttemberg: a Fivizzano nel 1471 e a Pontremoli tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500. E alla metà dell’800 i pastori della zona, che spostandosi per i lavori stagionali avevano appreso il mestiere del commercio, cominciarono a sostituire, nella gerla, le pietre da affilare, i prodotti della terra, dell’allevamento e della raccolta delle castagne, con i libri. Erano anche più leggeri e si vendevano nel nord alle nuove classi sociali più istruite ed emergenti. Così a Montereggio, Parana, Mulazzo e Pontremoli nacquero i librai ambulanti, con le loro bancarelle. E non è detto che proprio tutti sapessero leggere e scrivere, però tutti acquisirono ben presto il fiuto per i libri e gli autori che andavano di più. Così le case editrici, popolari o prestigiose che fossero, tenevano conto del loro intuito e del loro giudizio. Una Zia, altra lontana parente, che quanto a sapienza compete e rivaleggia con lo Zio, viene da famiglie in cui si intrecciano muratori emigrati in Corsica e librai ambulanti, bancarellai che con il tempo aprirono librerie stanziali. Lei ne ha una a Genova, là da tempo si è trasferita, ma torna sempre per la bella stagione a Pontremoli dove dicono sia «la regina dei salotti». Dice un poeta locale che le rondini hanno imparato dai lunigianesi a tornare. Anche i librai tornavano sempre per ritrovare il loro paese e ritrovarsi insieme. E in una di queste occasioni nel 1952 a Montereggio -altre versioni riportano Mulazzo- durante il primo Congresso dei librai, alla fine di una canonica cena, con un regolamento appuntato su un foglio pubblicitario dell’Albergo Ristorante Vittoria, nacque il premio Bancarella. Ci siamo andati a Mulazzo e a Montereggio, paesi incantevoli dove il tempo sembra sia rimasto fermo ad allora. E chissà che non sia vero. Anche se “allora” magari non era così mitico e la povertà e il bisogno la facevano da padroni molto più di adesso. A Montereggio strade e piazze sono dedicati a scrittori ed editori, come se proprio in quelle case di pietra fossero nati. E forse in qualche modo, sarà pure così, è da lì che tutto è iniziato: i librai ambulanti con le gerle, le bancarelle e poi le botteghe. E a pensare che oggi i libri li porta Amazon o si leggono in rete, ti si stringe un po’ il cuore.
La Zia mi ha chiesto se a Mulazzo avevo visitato il Castello, la Torre di Dante e il monumento in marmo a lui dedicato, se sapevo che lì l’Alighieri, esule ed ospite dei Malaspina nel 1306, prese o seguitò a comporre la Divina Commedia. Che poi chissà di preciso quando e dove fu pensata e scritta, ma comunque non lo sapevo. E mi ha domandato se conoscevo la storia di Montereggio, il suo paese d’adozione, e se ero stato nel tal museo e nel tal altro palazzo. E quando le ho risposto che era Ferragosto e noi più che altro si cercava una trattoria per mangiare qualcosa, mi ha lanciato un’occhiata di commiserazione in cui mi è parso di cogliere il velato disappunto di un’aristocratica pontremolese verso un povero pontederese ignorante, senz’arte né parte. D’altra parte, non per niente né a caso, si è regina dei salotti.
Che posso dire alla fine per rifarmi? Cercare qualche analogia tra Pontremoli e Pontedera, entrambe alla confluenza di due fiumi, entrambe città, centri di comunicazione importanti. Soprattutto posso vantare una cosa, davanti alla Zia. L’11 Agosto del 1952, il giorno che fu deciso di dare avvio al premio Bancarella, c’erano i librai e i sindaci di Pontremoli e Mulazzo, Arnoldo Mondadori, Valentino Bompiani, Salvator Gotta e la giovane Oriana Fallaci. Ed era presente l’onorevole Giovanni Gronchi, pontederese doc! Poi Presidente della Repubblica. E scusate se è poco. Buona domenica e buona fortuna.
Pontedera, 20 Ottobre 2019
Libero Venturi